La mia idea sulla rivoluzione. Lezione di Norberto Bobbio all’università di Torino il 13 novembre 1978
Rivoluzione probabilmente è una delle parole del linguaggio politico che in modo più intenso ha un duplice significato, positivo e negativo, perché pronunciata dai rivoluzionari è una parola esaltante, pronunciata dai non rivoluzionari e controrivoluzionari è una parola carica di valori negativi.
Il concetto di rivoluzione ha quindi questi due significati e devo dire che la rivoluzione francese è stata importante anche per questo perché finora abbiamo detto che la rivoluzione francese era importante per il significato descrittivo di rivoluzione, nel senso che per la prima volta era stato inserito nella storia un evento che non aveva precedenti. […] Per la prima volta il termine rivoluzione ha avuto non soltanto un nuovo significato descrittivo, ma anche un significato emotivo positivo; [prima] la parola rivoluzione o aveva un significato neutro, di puro e semplice mutamento, oppure aveva un significato negativo e abbiamo visto che più volte in tutto il corso del pensiero politico il mutamento è considerato come qualcosa di negativo. E’invece con la rivoluzione francese che il termine rivoluzione acquista non soltanto un preciso significato descrittivo, cioè quello di rottura radicale, ma anche positivo, cioè si comincia a dire che la rivoluzione è bene: è buona cosa fare la rivoluzione.
Con la rivoluzione francese nasce il mito ideale della rivoluzione, e quando dico “mito ideale della rivoluzione” voglio dire appunto che il termine rivoluzione acquista un significato emotivo positivo. Nasce il mito e comincia la storia della critica della rivoluzione. La rivoluzione è un mito, un ideale ma, con la rivoluzione francese, non è più soltanto un mito, un ideale, diventa qualcosa che si può mettere in pratica, che si può realizzare. Questo è il punto. La forte carica positiva che ha la rivoluzione sta nell’essere un ideale a cui l’umanità aveva sempre pensato in termini trascendenti – la vita, la società migliore il mito della società più giusta non è di questo mondo – mentre per la prima volta viene considerato come qualche cosa che si può realizzare in questo mondo e non nell’altro. Il rivoluzionario è colui che, a differenza del cristiano, dice “il mio regno è di questo mondo”. Ma nel momento stesso in cui la rivoluzione è immanente, non è più trascendente, cioè è un ideale che si può realizzare, ecco che entra nella storia, ed entrando nella storia diventa oggetto di critica, di verifica. Cioè, si è veramente realizzato quell’ideale? Il mito è veramente diventato realtà? Di fronte al mito che diventa realtà ecco l’atteggiamento critico, la critica della rivoluzione: la meta che il rivoluzionario si pone è troppo alta rispetto a quelle che sono le circostanze storiche, le circostanze oggettive, per poter essere realizzata; la rivoluzione è un “aldilà” che non può mai diventare un “al di qua”; la rivoluzione è quasi per essenza un ideale che non si può realizzare, tende alla propria realizzazione, ma in realtà non si può realizzare; la rivoluzione è sempre un qualcosa di incompiuto, di non finito, il tentativo di fare la rivoluzione, cioè di trasformare il mito in realtà, rinvia sempre a una rivoluzione ulteriore; la rivoluzione di fatto rimanda sempre ad un’altra rivoluzione e di qua nasce, secondo me, l’idea della rivoluzione permanente, cioè è legato al concetto di rivoluzione il fatto di essere permanente, nel senso che la rivoluzione non si può attuare in un colpo solo, proprio perché questo ideale supremo, questa meta suprema, è irrealizzabile oppure è una meta a cui ci si può avvicinare di volta in volta, rivoluzione per rivoluzione. […].
Ecco dunque che il problema della rivoluzione provoca di per sé stesso l’atteggiamento antirivoluzionario. Da questo punto di vista “rivoluzione” ha un significato positivo per i rivoluzionari e negativo per i non rivoluzionari; dico non-rivoluzionari per non dire controrivoluzionari, perché i non-rivoluzionari sono tutti coloro che ritengono che la rivoluzione non sia necessaria e che non sia neppure possibile. […]
Popper dice così: “La violenza genera sempre maggiore violenza. E le rivoluzioni violente uccidono i rivoluzionari e corrompono i loro ideali. I sopravvissuti sono soltanto i più abili specialisti dell’arte di sopravvivere. Ciò che una rivoluzione di sinistra sicuramente produrrebbe è la perdita della libertà di criticare, di fare opposizione. Se la dittatura che ne risulterà sarà di destra o di sinistra, ciò dipende dal caso ed è comunque sostanzialmente una differenza di nomenclatura […] Io sostengo che solo in una democrazia, in una società aperta, abbiamo la possibilità di eliminare ogni inconveniente. Se distruggiamo questo ordinamento sociale con una rivoluzione violenta, non solo siamo responsabili dei pesanti sacrifici della rivoluzione stessa, ma creeremo una situazione che rende impossibile eliminare i mali sociali, l’ingiustizia e l’oppressione. Io sono per la libertà individuale e odio come pochi la strapotenza dello Stato e l’arroganza delle burocrazie. Ma purtroppo lo Stato è un male necessario, è impossibile farne completamente a meno.
E purtroppo è vero: più sono gli uomini, più c’è bisogno dello Stato. Con la violenza si può facilmente annientare l’umanità. Ciò che è necessario è lavorare per una società più razionale, in cui in sempre maggior misura i conflitti siano risolti razionalmente. Dico “più razionale”! In verità nessuna società è razionale, ma ce n’è sempre una più razionale di quella esistente e verso la quale abbiamo perciò il dovere di tendere. Questa è un’aspirazione realistica e non un’utopia!” […].
Se poi voleste anche un motto […], io sceglierei questo di Voltaire: “Io credo che la basilica di S. Pietro sia molto bella, ma preferisco un buon libro inglese scritto liberamente che centomila colonne di marmo”. Con questo ho finito.