MEGLIO ANDARE A FONDO

APPROFONDIMENTI SU TEMI D’ATTUALITA’

PACE E GUERRA

Pace: una storia lunga e tormentata, tra idee e realtà

dal sito Marx21.it

Intervista a Domenico Losurdo

a cura di Emiliano Alessandroni

In un’intervista esclusiva per il nostro sito, Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”.

Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?

Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace. Tale pace doveva includere i popoli coloniali, dalle grandi potenze imperialistiche razziati a guisa di schiavi e costretti a combattere e a morire a migliaia di chilometri dalla loro terra per una causa che certamente non era la loro. In questo senso il libro sulla non-violenza ha gettato le basi per l’odierno libro su pace e guerra.

Nel tuo libro presenti, in relazione al tema della pace, un quadro della storia più complesso e intrecciato di quello che, di consuetudine, tende ad offrire il manicheismo della logica binaria: il cammino dell’umanità più che da scontri tra ideali di pace e ideali di guerra, appare scandito, soprattutto dopo l’avvento dell’età moderna, da conflitti tra diversi ideali di pace. Potresti illustrarci concretamente questo tipo di dialettica?

Alcuni decenni prima della rivoluzione francese a parlare di «pace perpetua» era l’abate di Saint-Pierre, che però intendeva far valere tale ideale solo per le potenze civili e cristiane dell’Europa. Esse erano chiamate a rappacificarsi e ad allearsi in modo da fronteggiare meglio i «turchi», i «corsari d’Africa» e i «tartari»; combattendo contro i barbari, esse potevano persino trovare «le occasioni per coltivare il genio e i talenti militari». Facciamo un salto di quasi due secoli. Nel 1907 il Premio Nobel per la pace era assegnato a Ernesto Teodoro Moneta (l’unico italiano insignito di tale riconoscimento), che quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», Moneta aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», che legittimamente scaricavano «le loro energie esuberanti nel continente africano», e ciò «nell’interesse stesso della pace europea» (e occidentale). Ecco la prima distinzione che s’impone: si tratta di vedere se l’ideale della pace perpetua sia declinato in modo universalistico. In caso contrario esso può divenire una micidiale ideologia della guerra: negli USA della seconda metà dell’Ottocento, i campioni del Manifest Destiny e dell’espansionismo coloniale nel Far West si sentivano legittimati a decimare o annientare i nativi, considerati razze inguaribilmente bellicose che ostacolavano l’avvento della pace perpetua. Non si tratta di un capitolo di storia remota e senza alcun rapporto con il presente: ancora ai giorni nostri le infami guerre coloniali o neocoloniali che in Medio Oriente hanno distrutto interi paesi, provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi sono state presentate come operazioni di «peace-keeping» ovvero di «polizia internazionale»! Ma per avere un’idea di cosa si tratta, vediamo in che modo un filosofo di fama internazionale (Todorov) ha descritto il regime change imposto in Libia nel 2011: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverate al regime che i macellai della NATO erano decisi a rovesciare. Una brillante operazione di «mantenimento della pace»!

Molto spesso Hegel, in quanto teorico del conflitto, viene accusato di promuovere una giustificazione della guerra. Nel tuo libro poni invece il suo pensiero come un contributo filosofico alla realizzazione della pace, ben maggiore di quello di Fichte e persino di quello dello stesso Kant (che, possiamo dire, costituisce una sorta di precursore del diritto internazionale). Se solitamente il passaggio Kant-Fichte-Hegel, viene presentato come un allontanamento dall’idea di pace, nel tuo libro questo passaggio coincide con uno sviluppo di questo concetto. Puoi chiarire questo punto?

Al di là di Hegel, occorre non perdere di vista le altre figure centrali della filosofia classica tedesca. Sull’onda della lotta da lui promossa contro l’occupazione semicoloniale da Napoleone imposta alla Germania e all’Europa, Fichte sviluppa una teoria della rivoluzione nazionale che è al tempo stesso rivoluzione sociale. Attraverso la mediazione di Lenin, grande ammiratore della sollevazione antinapoleonica, tale teoria svolge un ruolo centrale nelle rivoluzioni anticoloniali del Novecento. Se si volesse attualizzare la lezione dell’ultimo Fichte, occorrerebbe promuovere un movimento di protesta e di ripulsa contro le basi militari che gli USA e la NATO hanno installato in Europa che minacciano di coinvolgere rovinosamente l’Europa in una guerra decisa sovranamente da Washington. È lo stesso Brzezinski, già membro dell’amministrazione Carter e tuttora influente stratega statunitense a parlare dei presunti alleati degli USA come di «vassalli». Questi – possiamo aggiungere – sono costretti a erogare risorse finanziarie e carne da cannone per le guerre dell’Impero americano, così com’erano costretti a fare gli Stati tedeschi per le guerre dell’Impero napoleonico.

Per quanto riguarda Kant, la «pace perpetua» da lui invocata non solo ha una dimensione universalistica ma comporta la condanna della schiavitù nera, abolita dalle correnti più radicali della rivoluzione francese ma fiorente nel liberale Impero britannico (e nella stessa repubblica nordamericana nata da una costola di tale Impero). Vale la pena di aggiungere che la «pace perpetua» auspicata da Kant presuppone un rapporto di eguaglianza tra i diversi Stati e non ha nulla che fare con il dominio planetario imposto da uno Stato o da un gruppo di Stati, non ha nulla a che fare con la «monarchia universale», agli occhi del filosofo tedesco sinonimo di «dispotismo senz’anima». William Pitt, primo ministro della Gran Bretagna liberale che, in nome della libertà, pretende di rovesciare il governo rivoluzionario francese è bollato da Kant quale «nemico del genere umano». Siamo in presenza di una sorta di denuncia ante litteram della politica di regime change, ai giorni nostri messa in atto da Washington (spesso con la complicità subalterna di Bruxelles). È vero, Kant è stato più volte invocato dall’Occidente nel corso delle sue «operazioni di polizia internazionale»; ma agli apologeti della «monarchia universale» e del regime change noi possiamo ben rispondere: «giù le mani da Kant!». A coloro che, in nome di presunti valori universali, pretendono di dettar legge nel mondo intero, il grande filosofo della pace ha obiettato in anticipo: «la natura sapientemente separa i popoli»; a ciò provvede la «diversità delle lingue e delle religioni»; il tentativo di unificare il mondo sotto il segno del dispotismo internazionale si scontra pertanto con la resistenza dei popoli e finisce col produrre un’«anarchia» sanguinosa.

È giusto peraltro sottolineare l’importanza tutta particolare di Hegel. Pochi hanno riflettuto sul fatto che il bilancio critico da lui tracciato dell’ideale della «pace perpetua» è una critica severa delle guerre condotte in nome di questo ideale! Per dirla con Engels, la pace perpetua promessa dalla rivoluzione francese si trasforma con Napoleone in una guerra ininterrotta di conquiste. È la medesima conclusione a cui giunge Hegel. Con la disfatta di Napoleone e l’avvento della Restaurazione la Santa Alleanza conduce le sue spedizioni punitive e le sue guerre agitando essa stessa la bandiera della «pace perpetua»; e anche in questo caso calzante e pungente è la critica di Hegel: voler assicurare la «pace perpetua» mediante l’esportazione con la forza delle armi di questo o quel regime politico significa rendere la guerra non solo perpetua ma anche totale.

Che rapporto sussiste tra l’ideale rivoluzionario e quello pacifista? Sono essi compatibili?

L’idea universalistica di pace perpetua è emersa ed è diventata un’aspirazione e un movimento di massa in occasione della rivoluzione francese e, con una forza tutta particolare, con lo scoppio della rivoluzione d’ottobre. Si tratta di due rivoluzioni che rispettivamente hanno finito col promuovere o hanno promosso in modo consapevole e organizzato la lotta contro il sistema coloniale (e il pregiudizio razziale a esso connesso). La rivoluzione del 1789 sfocia in Santo Domingo-Haiti nella grande sollevazione degli schiavi neri diretta da Toussaint-Louverture. Nel 1917, subito dopo la rivoluzione d’ottobre, Lenin fa appello agli «schiavi delle colonie» a spezzare le loro catene. L’universalismo mette radicalmente in discussione da un lato l’assoggettamento coloniale e la schiavitù o semi-schiavitù coloniale e dall’altro l’idea per cui le «razze superiori» sarebbero destinate a dominare quelle «inferiori» e i popoli di cultura superiore sarebbero chiamati a dettar legge a quelli di cultura inferiore. È in questo contesto politico-ideologico che l’idea universalistica di un mondo senza guerre può ispirare un movimento di massa. Peraltro, l’esperienza storica ha dimostrato quanto sia difficile realizzare nella pratica tale idea: si tratta di un processo di apprendimento che è ben lungi dalla sua conclusione.

Per tracciare un’altra comparatistica interna alle tue ricerche, come si concilia il concetto di “pace” con quello di “lotta di classe” (cfr. D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica Laterza, Roma-Bari 2013)?

Nelle colonie, dove un intero popolo è assoggettato, privato della sua terra, deportato e spesso decimato, la «questione sociale» si presenta come «questione nazionale» (ovvero la lotta di classe tende a configurarsi al tempo stesso come lotta nazionale). L’osservazione è di Marx, il quale per altro verso osserva: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude», come dimostra in particolare il ricorso contro i nativi a pratiche genocide. La lotta degli «schiavi delle colonie» è una grande lotta di classe e al tempo stesso una lotta per la pace (e contro le forme più brutali di guerra e di violenza).

Nelle le pagine del tuo libro sembra agire in profondità la lezione hegeliana, soprattutto attraverso i concetti di “particolare astratto” ed “universale astratto” che proprio in cagione della loro astrattezza, vale a dire del mancato riconoscimento dell’alterità, si rovesciano ciascuno nel proprio contrario. Emblemi della seconda di queste due categorie appaiono quelli che chiami “Impero britannico” ed “Impero americano”. Puoi darci alcune spiegazioni?

Oggi si discute molto di universalismo e di relativismo. Occorre però tener presente una terza posizione: l’«empirismo assoluto», che secondo Hegel ha luogo allorché si conferisce il crisma dell’universalità anche a un particolare assai controverso o del tutto inaccettabile. Oggi è facile imbattersi nell’espressione «interessi e valori americani» oppure «interessi e valori occidentali»; ed è altrettanto facile imbattersi nella tesi per cui valori occidentali e americani sarebbero al tempo stesso universali. In tal modo gli stessi interessi imperiali diventano espressione di indiscutibili valori universali. È un empirismo assoluto abbastanza esplicito. Allorché poi un paese determinato pretende di essere la «nazione eletta da Dio», l’empirismo assoluto si manifesta nella sua forma più crassa e volgare. Ed esso, per dirla con Hegel, è «uno stravolgimento e una truffa»; è un atteggiamento inaccettabile non solo sul piano logico e «scientifico» ma anche su quello «etico». 

Occorre tuttavia tener presente che nell’empirismo assoluto può finire col cadere anche un entusiasmo rivoluzionario poco meditato e piuttosto ingenuo, che esige l’esportazione della rivoluzione, ignorando le peculiarità, le sensibilità, gli interessi di ogni singola nazione. Secondo Hegel, invece, l’universale è autentico solo nella misura in cui sa abbracciare il particolare. Si tratta, agli occhi di Lenin, di una «formula eccellente»!

Evidentemente la ricostruzione storica e filosofica da te compiuta non ubbidisce a un interesse di semplice erudizione ma giunge a misurarsi con alcuni problemi centrali del nostro tempo. Nel volume viene mostrato come attualmente sia in corso una guerra psicologica condotta dagli Stati Uniti ai danni di Russia e Cina. Una guerra che, possiamo dire, ha già riversato in Occidente una ondata di russofobia e sinofobia suscettibile di assumere le conformazioni più svariate. A questa si aggiunge una guerra economica, anch’essa già in atto. Ma il più forte timore è che queste opere di destabilizzazione, già di per sé gravide di conseguenze drammatiche sulla vita collettiva, preparino sin da ora l’eventualità dell’annientamento sul piano militare. Puoi illustrarci i rischi reali riguardo a quest’ultimo aspetto?

Diamo la parola a un analista autorevole e non sospetto di simpatie comuniste. Sergio Romano ha richiamato più volte l’attenzione sul fatto che gli USA aspirano da un pezzo a garantire a se stessi «la possibilità di un primo colpo [nucleare] impunito». È questa aspirazione a spiegare la denuncia da parte del presidente Bush jr., il 13 giugno 2002, del trattato stipulato trent’anni prima. Era «l’accordo forse più importante della Guerra fredda», quello in base al quale USA e URSS si impegnavano a limitare fortemente la costruzione di basi antimissilistiche, rinunciando così al perseguimento dell’obiettivo dell’invulnerabilità nucleare e quindi del dominio planetario che tale invulnerabilità dovrebbe garantire. Il paese che pretende di essere la «nazione eletta da Dio», l’unica «nazione indispensabile» e circonfusa dall’aura dell’«eccezionalismo», vorrebbe assicurarsi un monopolio di fatto delle armi di distruzione di massa e dunque una sorta di potere di vita e di morte sul resto della popolazione mondiale. Tutto ciò non promette nulla di buono…

Su «La Lettura» del «Corriere della Sera» (03/07/2016), Antonio Carioti sembra implicitamente riabilitare una logica argomentativa cara ad Ernst Nolte, sia pure aggiornata ai giorni nostri: l’Occidente e gli Stati Uniti hanno commesso crimini atroci, ma si tratta di congiunture, effetti collaterali sopportabili pur di scongiurare quella che costituisce la più grande minaccia per la pace: il superamento del sistema capitalistico. Questo, qualora si verificasse, trasformerebbe invero il pianeta in un cumulo di “formicai” o di “cimiteri”. Sì che le guerre di Wilson o Bush jr sarebbero ben poca cosa in confronto alla spietatezza di Lenin o Mao, campioni, assieme al socialismo, non già dell’ideale di pace, ma dell’intolleranza e della violenza di classe. Che cosa risponderesti a queste accuse? Il sistema capitalistico resta pur sempre, come il Corriere vuole indurre a pensare, il più pacifista, il meno violento, dei sistemi realmente possibili?

Nel tracciare il bilancio degli ultimi due secoli di storia, l’ideologia dominante, assunta da Carioti come un dogma indiscutibile, fa astrazione dalle colonie. Se invece superiamo questa astrazione arbitraria e falsificante, ecco che il quadro cambia in modo radicale. A metà dell’Ottocento, a proposito dell’Irlanda, colonia della Gran Bretagna, Beaumont, il compagno di Tocqueville nel corso del viaggio in America, parla di «un’oppressione religiosa che supera ogni immaginazione»; le angherie, le umiliazioni, le sofferenze imposte dal «tiranno» inglese a questo «popolo schiavo» dimostrano che «nelle istituzioni umane è presente un grado d’egoismo e di follia, di cui è impossibile definire il confine». In quello stesso periodo di tempo, Herbert Spencer, filosofo liberale e neoliberista, descrive in che modo procede l’espansionismo coloniale (portato avanti in primo luogo da paesi di consolidata tradizione liberale): all’espropriazione degli sconfitti fa seguito il loro «sterminio»: a farne le spese non sono solo gli «indiani del nord-America» e i «nativi dell’Australia». Il ricorso a pratiche genocide in ogni angolo dell’Impero coloniale britannico: in India «è stata inflitta la morte a interi reggimenti», colpevoli di «aver osato disobbedire ai comandi tirannici dei loro oppressori». Circa cinquant’anni dopo, Spencer si sente costretto a rincarare la dose: «siamo entrati in un’epoca di cannibalismo sociale in cui le nazioni più forti stanno divorando le più deboli»; occorre riconoscere che «i bianchi selvaggi dell’Europa stanno di gran lunga superando i selvaggi di colore dappertutto». L’espansionismo coloniale stimola una competizione sfociata nella carneficina della prima guerra mondiale: per dirla con lo storico statunitense Fritz Stern, è «la prima calamità del ventesimo secolo, la calamità dalla quale scaturiscono tutte le altre». Sì, Hitler si propone di imitare Gran Bretagna e Stati Uniti: mira a stabilire le «Indie tedesche» in Europa orientale oppure a promuovere qui un’espansione coloniale simile a quella a suo tempo verificatasi nel Far West della repubblica nord-americana. In modo analogo si atteggia l’Impero del Sol Levante: perché dovrebbe essere disconosciuto al Giappone il diritto all’espansionismo coloniale e imperiale di cui fa larghissimo uso la Gran Bretagna? Solo l’accecamento ideologico e manicheo può negare il merito storico acquisito dal movimento comunista nel mettere in discussione il sistema colonialista mondiale.

Disgraziatamente, la lotta tra colonialismo e neocolonialismo da un lato e anticolonialismo dall’altro è ben lungi dall’essersi conclusa. Ai giorni nostri, in particolare in Medio Oriente, le guerre scatenate da Washington e da Bruxelles, e il cui carattere neocoloniale è non poche volte riconosciuto e sottolineato dalla stessa stampa occidentale, stanno provocando un disastro dopo l’altro. Invece di prendere atto di questa realtà, Carioti grida allo scandalo per il fatto che il sottoscritto si esprime con «benevolenza» anche a proposito della «Siria sotto il regime della famiglia Assad, descritta come un’”oasi di pace di pace e libertà religiosa”». Il giornalismo brillante non ha tempo e voglia per la precisione filologica. Diversamente Carioti si sarebbe accorto che a suscitare la sua indignazione è un articolo dell’«International Herald Tribune» del 30-31 luglio 2011, p. 4 (Tim Arango, Despite upheaval, Syria beckons to Iraqis). Conviene riportarne alcuni passaggi.

«In Irak, la Siria rappresenta ancora qualcosa di simile a un’oasi. Gli irakeni cominciarono a rifugiarsi di là per sfuggire la guerra diretta dagli USA e il susseguente bagno di sangue della violenza settaria. Nel corso della guerra, la Siria ha accolto circa 300 mila rifugiati irakeni, più di qualsiasi altro paese nella regione (a quello che riferisce l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati). In questi giorni, anche se la Siria deve fronteggiare i suoi disordini, sono pochi gli irakeni che ritornano in patria. In effetti, sono molto più numerosi gli irakeni che partono per la Siria di quelli che ritornano in patria».

Oggi, la situazione è cambiata in modo radicale. Ma chi è il responsabile della catastrofe che è sotto gli occhi tutti? Una cosa è certa. Come documenta il mio libro, già nel 2003 i neoconservatori USA progettavano in modo esplicito e pubblico il cambiamento di regime a Damasco. D’altro canto, anche Sergio Romano ha osservato: già da un pezzo la Siria era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi «considerati un ostacolo alla “normalizzazione”» del Medio Oriente; «nell’ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e Teheran, la regione, soggetta ormai all’egemonia congiunta degli Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente “pacificata”». Sennonché, i custodi dell’ortodossia atlantica gridano allo scandalo anche per tesi che si possono leggere tranquillamente sull’«International Herald Tribune» o che sono espresse da autorevoli editorialisti del «Corriere della Sera» (il quotidiano al quale collabora anche Carioti).

Oggi abbiamo visto assegnare premi Nobel per la pace al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama e al dissidente cinese, Liu Xiaobo. A contraddistinguere l’amministrazione del primo è stato lo scatenamento della guerra contro la Libia, il sostegno garantito ad Israele durante le operazioni militari “Piombo fuso” e “Margine di protezione”, il supporto economico e militare al terrorismo di matrice islamica in Siria contro il governo di Assad, il sostegno ai tentativi di colpo di Stato militari in Venezuela e il supporto del golpe di Majdan in Ucraina, realizzato con un considerevole protagonismo di formazioni filonaziste come Svoboda e Pravy Sektor. Il secondo ha esplicitamente sostenuto ed esaltato il colonialismo occidentale ai danni della Cina. Possiamo dire che l’idea di “pace” abbia subito, negli ultimi lustri, una preoccupante involuzione? E quali sono state le ragioni storiche che l’hanno determinata?

Come ho spiegato in precedenza, a lungo l’idea di un mondo senza guerre, l’idea di «pace perpetua» è stata declinata con lo sguardo rivolto esclusivamente all’Occidente. Certo, questa tradizione è stata messa radicalmente in discussione dalla rivoluzione d’ottobre, Sennonché, dopo il trionfo conseguito dall’Occidente e dal suo paese-guida nella guerra fredda, a Washington, Bruxelles e in altri capitali non pochi si sono abbandonati all’illusione di poter tornare al buon tempo antico. E così, il ritorno alla grande delle guerre coloniali o neocoloniali è andato di pari passo con il conferimento del premio Nobel per la Pace ai protagonisti e agli ideologi delle guerre coloniali e neocoloniali. Oltre a Obama, sono stati insigniti Liu Xiaobo (che, rimpiangendo la «breve» durata del dominio coloniale in Cina, di fatto celebra le guerre dell’oppio) e l’Unione Europea (dimenticate o ridotte a bagattella sono le guerre in Vietnam, in Algeria, in Jugoslavia…).

Ad uno spirito pacifista oggi che cosa diresti? Come prevenire le guerre? E quali le dinamiche concrete da attivare, nel nostro presente, affinché l’ideale della pace perpetua non rimanga una vaga utopia?

Il primo compito di chi vuole realmente lottare contro i pericoli di guerra è di liberarsi dalle mitologie dominanti. Nel 2000 un libro scritto da Hardt e Negri (Impero) e subito coronato dal successo mondiale assicurava che, grazie alla globalizzazione affermatasi a ogni livello, si andava affermando, anzi si era già affermata la «pace perpetua e universale». Del tutto superata era la categoria leniniana di imperialismo: «occorre ricordare che, alla base dello sviluppo e dell’espansione dell’Impero, c’è l’idea della pace»; «il suo concetto è consacrato alla pace». Tutti sono in grado di misurare l’enorme danno che la diffusione di tale mitologia ha provocato al movimento per la pace, oggi che il pericolo di una guerra su larga scala è tornato all’ordine del giorno.

E, tuttavia, non basta prendere coscienza della crescente pericolosità della situazione mondiale. A suo tempo Hegel ha chiarito che un’azione rivoluzionaria è tale se è una «negazione determinata». A sua volta Lenin insiste sulla necessità di un’«analisi concreta della situazione concreta». Occorre comprendere le caratteristiche particolari del mondo in cui viviamo. Piuttosto che ragionare per analogia rispetto al passato, occorre tener presenti e non perdere mai di vista le novità della situazione presente.

Alla vigilia della prima e della seconda guerra mondiale c’erano due coalizioni militari contrapposte; ai giorni nostri c’è in pratica una sola gigantesca coalizione militare la (NATO) che si espande sempre di più e che continua a essere sotto il ferreo controllo statunitense. Alla viglia della prima e della seconda guerra mondiale i principali paesi capitalistici si accusavano reciprocamente di scatenare la corsa al riarmo; ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti criticano i loro alleati perché non dedicano maggiori risorse al bilancio militare, perché non accelerano a sufficienza la politica di riarmo. Chiaramente, la guerra a cui si pensa a Washington non è la guerra contro la Germania, la Francia o l’Italia, ma quella contro la Cina (il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale e diretto da uno sperimentato partito comunista) e/o la Russia (che con Putin ha avuto il torto, dal punto di vista della Casa Bianca, di scuotersi di dosso il controllo neocoloniale cui si era piegato o adattato Eltsin). E questa guerra su larga scala, che potrebbe persino varcare la soglia nucleare, gli Stati Uniti sperano all’occorrenza di poterla condurre con la partecipazione subalterna, al loro fianco e ai loro ordini, di Germania, Francia, Italia e degli altri paesi della NATO. È contro questo pericolo di guerra concreto che siamo chiamati a lottare.

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sinistra

Contro la Nato e la Federazione russa

di Antonio Martone

Siamo in guerra contro la Russia. Una guerra non dichiarata per paura del nucleare ma, per il resto, siamo in guerra. Se non ci crediamo, basta sentire i media. La propaganda che va in onda è quella tipica dello stato di guerra, ossia la demonizzazione del nemico. Tutto ciò è aberrante. Senza forze che facciano da mediazione, l’abisso si fa più vicino.

Temo l’escalation. Quando inizia un flagello nessuno ci crede: prima o poi, però, tutti ne dovranno prendere atto. Basta anche un errore. Un piccolo errore, un equivoco, un fraintendimento, una bomba che finisce per caso accanto ad una centrale nucleare, un incidente casuale, e l’Europa e la grande storia del mondo, non esiste più.

L’aspetto tanatologico della guerra nasce dagli impulsi più distruttivi (e autodistruttivi) dello spirito umano. Quando si vuole la pace, però, occorre principalmente non attentare alle condizioni di vita e di esistenza di un altro, individuo o popolo che sia, accogliere le sue ragioni, evitare di cedere alla propria tracotanza e volontà di potenza: non smettere mai di mediare, nella consapevolezza della comune (sebbene breve) appartenenza alla terra.

Era già chiarissimo ad Hobbes (Leviatano, 1651) che gli uomini sono naturalmente portati alla guerra. La pace è del tutto innaturale e necessita di un’enorme capacità razionale, oltre che di un infinito buon senso. Sebbene si tratti di leggi elementari delle comunità umane, non per questo lo sforzo di costruzione della pace appare compreso dalle nostre classi dirigenti che, anzi, sembrano spesso le meno adatte a salvarci dalla ferocia intollerabile dei conflitti bellici.

Oggi, molti fanno finta di ignorare che la pace è “innaturale” e che, per ottenerla, occorrono cure continue: ci si comporta come se la propria arroganza fosse sempre giustificata e, nel contempo, la pace ugualmente garantita.

È innegabile che la Federazione russa, pur nell’illegittimità d’una guerra d’aggressione, evidentemente illegale dal punto di vista del diritto internazionale, abbia dalla sua parte, comunque, delle ragioni storiche e geopolitiche. Tanto per dirne una, nei patti post-Unione sovietica era presente la condizione che la Nato non si sarebbe espansa ad Est. Tutto ciò non è stato mantenuto. Quanti sono i paesi, prima in orbita sovietica, entrati da allora nella Nato? Mi chiedo, ancora, e mi pare che storicamente le risposte siano chiare: gli Usa tollererebbero missili russi a Cuba o in Messico? Sono convinto, peraltro, e mi piacerebbe discuterne, che la guerra in Ucraina sia cominciata molto prima della terribile e ingiustificabile invasione da parte della Federazione russa.

In questo momento, però, tutto questo non mi interessa: non mi interessa più. Ciò che mi sta a cuore ora è la sorte dei civili che muoiono, dei soldati che cadono, delle città bombardate, dei monumenti distrutti, dell’immenso spreco di risorse che potrebbero servire per scopi molto più nobili di quelli, squallidissimi e volgari, di una guerra.

Credo che allora abbiamo il dovere di ricordarci che non serve la causa della pace chi irrigidisce le proprie posizioni e non mostra disponibilità alla comprensione delle ragioni degli altri. La pace – come detto – è frutto di pazienza, di mediazioni continue e non tollera che vi sia una qualsiasi volontà di potenza che si sforza con ogni mezzo di erodere i valori e le condizioni di esistenza degli altri. Il manicheismo produce conflitto non pace. Demonizzare il nemico è l’arma della guerra e non testimonia della ricerca della pace.

L’escalation bellica va assolutamente evitata. Come ogni guerra, più di ogni guerra, un conflitto oggi potrebbe produrre un’eterogenesi dei fini di proporzioni incalcolabili. I russi hanno combattuto e vinto contro l’imperialismo francese-napoleonico; hanno combattuto e vinto contro l’imperialismo nazista; hanno duramente pagato (in termini di vite umane e di distruzioni materiali) la loro lotta plurisecolare contro imperialismi di varia provenienza: se gli euro-americani credono che cederanno ora, si sbagliano di grosso, dimostrando di non conoscere la storia.

Esistono pericoli concreti che vanno nella direzione di un’accentuazione dell’intensità e della vastità del conflitto armato. Peraltro, ricordo che quasi mai una guerra è iniziata avendo ben chiaro in mente come si sarebbe svolta e quale andamento avrebbe preso strada facendo. Quando un flagello inizia, pochi credono sia un vero flagello, salvo le prime vittime: c’è bisogno di tempo per accorgersi di ciò che sta davvero accadendo. La guerra è un fuoco che si accende. Una fiamma che deflagra, cresce su sé stessa e incendia tutto ciò che le sta intorno.

So bene che esiste un’ondata emotiva scatenata contro la Russia. La capisco. La capisco benissimo. Io stesso non dormo bene, e talvolta non riesco neppure a reggere fisicamente le scene violente che siamo costretti a vedere. Devo andarmene da quelle scene. Devo cercare altro ma sono giorni, ormai, che non riesco a pensare ad altro. Mi capita con questa guerra, ma mi è capitato anche in occasione della guerra in Iraq, in Afghanistan, in Siria, nello Yemen ecc. ecc. – per quanto la stampa non presentava allora quelle guerre con l’enfasi con cui viene illustrata e condannata ora quella in Ucraina. Per me, non è così: il valore di una vita umana che si spegne, sia essa appartenente ad un siriano, un iracheno o ad un ucraino, è ugualmente una perdita assurda per l’umanità.

So altrettanto bene, però, che il fuoco non si spegne col fuoco. In questo momento, ciò che conta è soltanto la pace. Non mi interessano ora le ragioni di Putin, né quelle della Nato (sono loro, non dimentichiamolo, che si stanno effettivamente fronteggiando e che hanno messo in mezzo l’Ucraina): mi interessa impedire che, per volontà deliberata, o anche soltanto per errore, possa innalzarsi il livello di intensità di una guerra schifosa.

Il rischio è alto. Altissimo. Basta un’inezia per estendere il conflitto, e magari portarlo a livello nucleare – ciò che potrebbe non avere né vincitori né vinti. Le armi in possesso delle parti in causa sono tali da poter distruggere in pochi minuti il mondo intero. Io sono convinto che ciò non accadrà. Sono altrettanto convinto però che il rischio esiste e nessuno può essere certo del contrario. Il fatto stesso che tale rischio permanga, però, dovrebbe impedire qualsiasi azione che lo accentui e che, invece, non lo riduca.

Non sono d’accordo sulla fornitura di armi all’Ucraina. Non sono io a dirlo ma i massimi esperti di azioni militari e di geopolitica: questa guerra l’Ucraina non potrà mai vincerla contro uno degli eserciti (limitiamoci alle armi convenzionali) più forti del pianeta, ossia quello della Federazione russa che, con ogni probabilità, ha alle spalle anche il gigante cinese. Non sono d’accordo neppure con le sanzioni, poiché queste ultime non raggiungono mai il loro obiettivo (basta conoscere un poco di storia) ma, al contrario, radicalizzano e compattano quegli stessi popoli che vorrebbero mettere alla fame. Per non parlare poi del fatto che la Federazione russa è un paese immenso, con tanti paesi confinanti, forgiato dai ghiacci e da privazioni ultrasecolari, che ha sempre saputo difendersi dalle aggressioni proiettandole, come un boomerang, sul corpo stesso dell’aggressore. Inoltre, queste azioni che io considero politicamente sciagurate rischiano di far voltare una delle teste d’aquila della bandiera russa verso est (anche economicamente) isolando così ulteriormente l’Europa.

Purtroppo, sono costretto a vedere che c’è tanta gente che si sente già in guerra, anche nel nostro paese. Aizzati dai media, sembra di assistere ai due minuti d’odio quotidiani di cui parlava amaramente, qualche decennio fa, George Orwell. Da parte mia, invece, auspico la formazione di un movimento pacifista transnazionale che vada da Madrid a Pechino, capace magari di raggiungere Washington, in grado di ricondurre i leader politici alla ragione: a morire in guerra sono gli uomini comuni, poveracci, gente che magari non la voleva fare. Auspico, inoltre, la formazione di un’identità europea autonoma rispetto a quella statunitense. Se l’Europa intende acquisire un’autentica sovranità, non può farlo se non decidendo (Schmitt docet) in piena autonomia. Se non lo fa, la sua sovranità rimarrà semplicemente quella regionale di un protettorato americano.

La guerra non porta mai giovamento a chi la fa: come detto, sono le persone semplici che muoiono in guerra non i capi di Stato e neppure i generali. Spero che un fronte pacifista di questo tipo nasca, anche grazie alla diplomazia europea, in fondo il terreno dello scontro è casa nostra, si sviluppi e travolga sul suo cammino tutti i fautori di guerre, di sanzioni, i venditori di armi e di morte e coloro che, innamorati della propria volontà di potenza (russi o americani che siano), considerano il proprio popolo nient’altro che: “una somma che talvolta si può anche spendere”.

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QUALCOSA NON TORNA

Una riflessione di Raoul Kirchmayr

di Cinzia Abramo


“A “Otto e mezzo” di stasera c’è stato un momento – durato una decina di minuti circa – in cui si è capito che un atterrito Massimo Giannini (La Stampa) ha capito. Ha capito che qualcosa non torna più, nel racconto – meglio: nella narrazione – della guerra in Ucraina. Da questa parte dello schermo lo abbiamo capito dallo sguardo sbarrato e dalle labbra serrate in una sorta di smorfia angosciata. Perfino Lilli Gruber è parsa vacillare, non sapendo più da dove e come riprendere il filo del discorso. Poi, con molto mestiere e bravura ha rimediato. L’unico che è parso non sorpreso è stato Caracciolo, il direttore di Limes, che evidentemente non si era fatto soverchie illusioni. E purtuttavia, aveva il volto parecchio tirato, e un po’ scavato.
Insomma, il gelo era sceso nello studio, dopo che – intervistata da Gruber – Iryna Vereshchuk, divisa verde e sguardo di ghiaccio, ha detto a nome del governo ucraino, da lei rappresentato nella veste di vicepremier, le seguenti cose: a) Il governo ucraino sa qual è la verità e ha il coraggio di dirla; b) la verità è una sola; c) il presidente è il popolo, il popolo si riconosce nel presidente; d) no-fly zone subito sulle centrali nucleari; e) intervento militare degli USA in Ucraina; f) garanzie internazionali occidentali, da parte di USA e GB, per l’Ucraina per il dopoguerra; g) Crimea e Donbass restituite all’Ucraina, dopo periodo di monitoraggio internazionale; h) né il riconoscimento delle repubbliche del Donbass né della Crimea né la neutralità dell’Ucraina possono costituire base di trattativa con la Russia.
Giannini, nonostante lo sconcerto – e, immagino, il brivido lungo la schiena – è stato lucido nel far notare a Vereshchuk che, con queste premesse non ci potrà mai essere nessuna trattativa con la Russia. La risposta è stata che l’Occidente deve prendersi ora quelle responsabilità che non si è preso in passato. Caracciolo ha fatto notare alla vicepremier che questa base negoziale forse poteva andare bene nel 2014, certo non ora, con la situazione attuale sia politica sia militare. E che una trattativa realistica non poteva che avere come punto di partenza lo status ante 23 febbraio, poiché gli USA non interverranno mai in Ucraina in un confronto militare diretto, poiché questo significherebbe lo scoppio di un conflitto mondiale. La replica è stata che la Russia va fermata ora in Ucraina perché il conflitto ci sarà ugualmente.
In precedenza, su domanda di Gruber circa le vittime odierne a Donetsk e sul rimpallo delle responsabilità del bombardamento, la risposta è stata che i russi sparano sui (loro) civili per attribuire la responsabilità agli ucraini. Gli ucraini, ha aggiunto poco dopo, sono credenti e sono per l’amore.
Vereshchuk, che ha anche un passato come militare, è considerata esponente conservatrice e moderata nella compagine di governo.
Ecco, lo sguardo angosciato di Giannini ha restituito l’istante dell’illuminazione, quando ha capito di non aver capito granché su chi fossero i difensori della libertà, su quali fossero i loro obiettivi e su quale fosse il “frame” psicologico – prima ancora che politico – su cui si organizzano le loro decisioni: la mistica del sacrificio. Di questa mistica è imbevuto, per esempio, il culto degli eroi di Maidan. E’ uno dei tanti anacronismi del post-guerra fredda: un pezzo di medioevo partorito dai nazionalismi del dopo-URSS, ideologie di risulta nel vuoto politico della (breve) fine della storia.
La storia ha ripreso da tempo il suo cammino con questi grumi arcaici sopravvissuti chissà come e riportati alla superficie dalle correnti putride dei fascismi postmoderni.
Almeno spero che a Giannini da oggi sia chiara una cosa: è sufficiente ricordare qual è la linea – a quanto pare ufficiale – del governo Zelensky. E la linea è: nessuna linea, diritti allo scontro, verso il sacrificio finale. Se l’Ucraina vincerà, vincerà la verità, se l’Ucraina verserà il suo tributo di sangue lo farà sacrificandosi per la verità. L’Apocalissi non fa paura quando è la verità che deve trionfare.
Auguri, Giannini. Avete giocato agli apprendisti stregoni con l’abisso, ora ce l’avete davanti.”


RAOUL KIRCHMAYR è professore a contratto all’Università di Trieste, dove insegna Estetica. È redattore della rivista “aut aut” e membro dell’“équipe Sartre” all’Institut des Textes et Manuscrits dell’Ecole Normale di Parigi. Ha pubblicato le monografie Il circolo interrotto.

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La guerra vista dalla luna

Pubblichiamo un intervento di Leonardo Clausi e Serafino Murri, autori di Pandemia Capitale (manifestolibri, 2021), sull’attuale guerra in Ucraina.

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Si vis pacem para bellum, se vuoi la pace preparati alla guerra, recita il tristo adagio latino (anzi romano: i romani sono stati i primi, veri imperialisti). Tutta la storia d’Europa – e del mondo quando ancora era assoggettato dall’Europa – è nel segno di questa logica primordiale, ferina, quella del Leviatano e del patto sociale di non aggressione che fagocita le sue parti. Ha continuato a esserlo dopo la Seconda guerra mondiale, nella Guerra fredda a cui la caduta dell’Urss non ha messo la parola fine, e in quelle, bollenti, mosse prevalentemente dall’Occidente liberal-consumista negli ultimi trent’anni per difendere «i mercati» travestiti da libertà dei popoli in nome della democrazia e dell’autodeterminazione. Nella cosiddetta deterrenza nucleare e nella Nato, ex-ferrovecchio (cfr. il grande mediatore neogollista Macron) sopravvissuto alla fine della Storia che però, mannaggia, non era ancora finita.

Questa è una fetida guerra (come ogni guerra lo è), che – tra metaverso e molotov – manda definitivamente in pensione secoli brevi che tanto brevi non erano. E nella sinfonia unanimista-ipocrita dei media meanstream che la racconta, è opportuno fare alcune considerazioni. Non prima di aver ribadito solidarietà al popolo ucraino innanzitutto, attaccato in quanto debole vittima di uno strapotere imperialistico prima di tutto, sempre e comunque. La loro sofferenza ripugna, indicibilmente. Ripugna tornare a vedere «europei come noi» rintanati come topi nei tunnel della metro o sotto i ponti crollati in cerca di riparo dalle bombe. Poi, i molti ma. Come nella prima guerra mondiale, assistiamo al fronteggiarsi di due diverse versioni della stessa molla aggressiva ed espansionistico-colonialista del Capitale: quella della Russia degli «oligarchi», le cui colonie a Forte dei Marmi o in Costa Smeralda sono state legalmente acquistate in rubli, e quella del GAFAM e delle bande di evasori fiscali d’Occidente che proliferano in società Off-Shore, paradisi fiscali e economie di rapina nel cosiddetto, ex-«Terzo mondo». Senza contare la Cina e la questione di Taiwan, (che sta alla Cina come spunto bellico come la già dimenticata Crimea, prodromo di questa guerra, sta alla Russia), isola di neoliberismo nel cuore della Repubblica Popolare, pronta a difendere la propria «indipendenza» armata fino ai denti – con intenti pacifici, s’intende – dagli Stati Uniti.

La narrazione della guerra nel cuore d’Europa segue traiettorie ben note. L’antropomorfizzazione della politica, innanzitutto. Si torna a parlare dei politici come individui: «Putin è un pazzo» (come Trump, suo fan dichiarato, era un pazzo). Come se i leader non fossero la punta di un iceberg (R.i.p.) di una logica di potenza politico-economica travestita di emotività e salute mentale. Chi, denunciandone le trame, si oppone alla versione ufficiale dell’ordine geopolitico e del suo intramontabile Bispensiero che spaccia per etica l’interesse economico, da entrambe le parti ha il destino segnato: per un Navalny avvelenato e carcerato, c’è un Assange braccato che rischia 175 anni di galera. Ma, dicono i commentatori liberal, Putin ha avuto almeno il merito di aver rilanciato l’Europa, cavandola fuori dalla sua consistenza spettrale, facendole scoprire un’unità inedita. Staremo a vedere quanto durerà la rediviva unità quando i profughi diventeranno milioni, seppure biondi, cristiani, e «occidentali».

Quest’Europa flaccida con l’elmetto, pedina «geopolitica» (termine politicamente corretto per «imperialismo») degli Stati Uniti, farebbe bene a riflettere sulle sue, globalizzate, contraddizioni. Lo strangolamento in medias res dell’economia russa potrebbe far levitare gli indici di gradimento del Ras Putin, alla faccia del coraggio di chi protesta in patria, facendo definitivamente della Russia un aggressivo ibrido di anarco-capitalismo nazionalistico e autarchico. Punire gli «oligarchi», per il Capitale, è un punire se stesso nelle varie sue declinazioni locali: in Italia significa tutti disoccupati a Porto Cervo e a Portofino, bollette e prezzo del pane triplicato, benzina & gas in orbita. E sul piano culturale? La Siae che smette di pagare i diritti d’autore ai russi: così romanzieri e cineasti russi, magari dissidenti e cento volte più anti-putiniani degli editorialisti nostrani in mimetica, vanno sul lastrico solo perché simbolicamente (e razzisticamente) assimilati al loro criminoso leader politico. Un accanimento che non risparmia neanche i morti. Dostoevskij cancellato dalla Bicocca: sembra una battuta di Crozza, e invece è l’indice più autentico dell’attuale farisaismo culturale dell’Occidente.

La scontata solidarietà con il popolo ucraino è alla base di questo contributo. Ma rimane quanto mai doveroso non perdere di vista la famosa luna mentre gli imbecilli guardano il dito. A chi grida l’uccisione di Putin o la sollevazione contro di lui, chiediamo anche di ricordare i cadaveri umiliati di Saddam Hussein e di Gheddafi, vittime simboliche della giustizia del mercato, il primo nonostante milioni di persone in piazza, le stesse che vorremmo vedere scendere adesso (e per fortuna molti tra i più giovani colgono l’esigenza di non estinguerci, perlomeno prima che compiano diciotto anni); il secondo senza che si levasse una voce. I doppi standard della narrazione mediatica rispetto alle coperture delle guerre «altrove» gridano vendetta. Ma lo Yemen, poi, esiste ancora o è un film distopico-fantasy di Oliver Stone? L’Ucraina del mondo arabo, da sei anni non fa notizia. Sono altri, lontani come i Ceceni, della cui repressione si congratulava l’arci-atlantista Tony Blair volando a Mosca dallo «zar» Vladimir: musulmani che si ammazzano fra loro. Il rovescio di questa falsariga sono le cronache scivolose dell’invasione, intrise di un’enfasi ed empatia più o meno consapevolmente razzista che classifica inevitabilmente i profughi in etnie (vedi i fascistoidi governi polacco e ungherese costretti a cambiare musica sull’accoglienza) ancor prima che in classi. Per tacere delle frettolose menzioni ai profughi non europei vittime di una fuga segregata: cacofoniche stecche nella grande epica sinfonia della resistenza ucraina.

Certo che siamo «contro la Nato»: lo era a suo modo persino il non propriamente bolscevico Craxi, figuriamoci. Ma la Nato è un altro dito, e noi non vogliamo morire imbecilli. La questione pro-contro Nato è il rimasuglio di un Novecento rigurgitato in salsa post-moderna: parlare della Nato è come dare la colpa di una rapina alla mitraglietta piuttosto che al rapinatore. Allargando il campo, la Nato è il braccio armato della libertà democratico-liberista e del Mercato Globale che non conosce pietà di fronte al profitto. Qui ci troviamo insomma di fronte a due modelli di capitalismo in declino: il modello nazionalistico, mafioso-rinascimentale degli «oligarchi», signorotti dell’accaparramento da esportazione, che in patria si sono fatti da sé pistole alla mano forti della shock therapy courtesy of Brzezinski (che quasi sta a tutto questo come il trattato di Versailles denunciato da Keynes nel 1919 sta alla Seconda guerra mondiale), e quello trans-nazionalistico democratico-liberale dei vaccini obbligatori, di Big Pharma e delle assai oligarchiche piattaforme digitali che si sono appropriate del bene comune della Rete privatizzandola in tempi di frontiera selvaggia non regolamentata. Due realtà «giudaico-cristiane» che si spartivano il mondo, e che ora non ci riescono più. Questa guerra è il loro rantolo. Non vogliamo che sia anche il nostro.

Immagine: Adam Parfrey

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Leonardo Clausi (Bassano del Grappa, 1968) è il corrispondente da Londra del «manifesto» e ha collaborato a varie testate, tra cui «L’Espresso» e la Rai. È tra i fondatori del Fill Festival of Italian Literature in London. Per tipi di manifestolibri ha pubblicato Uscita di insicurezza. Brexit e l’ideologia inglese (2017).

Serafino Murri (Roma, 1966), insegna presso la UNINT, lo IED e la Scuola d’Arte Cinematografica «Gian Maria Volonté» a Roma. Ha pubblicato monografie su Pasolini, Kieslowski e Scorsese e, recentemente, Sign(s) of the Times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale (2020) e con Leonardo Clausi, Pandemia Capitale (manifestolibri, 2021).

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I falchi volano sulla no fly zone

Branko Marcetic dal sito Jacobin

Basta scorrere l’elenco dei sostenitori del blocco aereo per scoprire che tra di essi ci sono alcune delle persone che hanno contribuito a portarci verso questo orrore. Adesso sollecitano ancora una volta una scelta potenzialmente disastrosa

Nonostante giochi con il fuoco, la campagna per una «no-fly zone» in Ucraina sembra prendere slancio: all’inizio di questa settimana ventisette esperti di politica estera hanno sottoscritto una lettera chiedendo all’amministrazione di Joe Biden di istituirne una limitata, per proteggere i corridoi umanitari recentemente concordati nei colloqui Russia-Ucraina. La lettera è già stata ampiamente citata dalla stampa, conferendo a questa proposta disastrosa maggiore legittimità. Quello di cui non si parla è il ruolo dietro le quinte dei produttori di armi, dei combustibili fossili e di alcuni oligarchi nel promuovere questi interessi.

Parlare di no-fly zone significa utilizzare un eufemismo subdolo e intelligente per la guerra, che contempla l’abbattimento di veivoli e la distruzione delle difese aeree russe. Non appena le forze statunitensi distruggeranno un aereo russo, uccidendone il pilota, l’invasione di Mosca muterà da guerra regionale a qualcosa di più vicino a una guerra mondiale, solo che questa volta coinvolgerebbe scorte di centinaia e migliaia di armi nucleari, che non esistevano quando Adolf Hitler invase la Polonia. Anche un falco come Marco Rubio dice una cosa del genere per contrastare questa prospettiva.

Dato questo esito, forse non sorprende che numerosi nomi sulla lettera siano intrecciati finanziariamente con l’industria della difesa o lavorino per organizzazioni da essa finanziate.

Ian Brzezinski ha lavorato per cinque anni come direttore in Booz Allen Hamilton, un contractor del Pentagono, prima di dirigere il Gruppo Brzezinski, che si presenta come «società di consulenza strategica al servizio di clienti commerciali statunitensi e internazionali nei settori finanziario, energetico e della difesa». John Kornblum è un consulente senior presso il Center for Strategic and International Studies (Csis), un think tank che ha Northrop Grumman come uno dei suoi due maggiori finanziatori e che riceve anche donazioni da aziende come General Atomics, Lockheed Martin e Boeing.

Sia Ben Hodges che Kurt Volker fanno parte del Center for European Policy Analysis (Cepa), un think tank che nel 2021 ha annoverato le società di difesa Bae Systems, General Dynamics, General Atomics e Lockheed nel suo elenco di contributori. Volker è anche amministratore delegato internazionale e copresidente del comitato consultivo di Bgr Group, che «rappresenta le principali società aerospaziali e della difesa, fornitori aerospaziali, fornitori di servizi governativi, organizzazioni senza scopo di lucro e stati e comuni interessati alla difesa della politica degli Stati uniti».

Philip Breedlove fa parte del consiglio di amministrazione del Center for a New American Security (Cnas), un think tank liberale aggressivo che è stato utilizzato per il personale delle amministrazioni democratiche, inclusa questa. Oltre al Pentagono, Northrop Grumman è il principale finanziatore del Cnas, con Raytheon, Palantir, Bee, Boeing, Booz Allen, Lockheed e General Dynamics tra gli altri sostenitori.

Evelyn Farkas, nel frattempo, è un ex funzionario del Pentagono e analista della sicurezza nazionale a capo della alquanto misteriosa Farkas Global Strategies, che si descrive vagamente come impegnata nella «crescita strategica di alcune delle più grandi società del mondo». La pagina di Farkas parla di «sfruttare le capacità delle aziende tecnologiche per migliorare i programmi chiave di acquisizione della difesa» e menziona «resilienza operativa, mitigazione del rischio, sicurezza informatica e protezione delle infrastrutture critiche» come alcune delle sue competenze, forse alludendo al tipo di lavoro che fa l’azienda.

Farkas siede anche nel consiglio di amministrazione del Project 2049 Institute, che spinge per una posizione più conflittuale nei confronti della Cina e per aumentare le vendite militari ai paesi asiatici in tensione con essa. Sebbene non renda più pubblico l’elenco dei suoi sostenutori, una pagina archiviata elenca molti dei produttori di armi citati in precedenza, così come l’appaltatore militare privato DynCorp (poi acquistato da Amentum), la società di difesa Science Applications International Corporation (Saic) e Sbd Advisors, che «si concentra sull’identificazione e il collegamento dell’innovazione del settore privato per affrontare le sfide della sicurezza nazionale».

È uno spaccato rilevante del modo in cui, a Washington, la politica estera e gli interessi finanziari privati tendono a sovrapporsi per il profitto. I dirigenti della Lockheed e della Raytheon si erano lamentati dell’impatto sui profitti del ritiro degli Stati uniti dall’Afghanistan lo scorso anno, e loro e General Dynamics avevano celebrato le opportunità di business derivanti dalle attuali e del tutto evitabili tensioni geopolitiche con la Cina. Nel gennaio di quest’anno, stavano sbavando per le crescenti tensioni sull’Ucraina, e ora si parla di riclassificare le azioni dei produttori di armi come investimenti «socialmente responsabili» alla luce dell’invasione del presidente russo Vladimir Putin.

È così che funziona la versione moderna del complesso militare-industriale di cui ha parlato il presidente Dwight Eisenhower. Alcune società hanno un interesse acquisito in guerre e conflitti; pagano generosamente e promuovono voci di spesa che favoriscano politiche belliche; quelle voci passano in rassegna le posizioni del governo, i gruppi di studio finanziati dalle aziende e le loro iniziative imprenditoriali scambiando quell’esperienza, aumentando ulteriormente la loro importanza; quindi, quando arriva l’opportunità per un’altra guerra, c’è sempre uno stormo di falchi di alto profilo e accreditati per inerzia pronti a sostenere pubblicamente la causa per più guerra.

Dieci dei firmatari ricoprono varie posizioni all’Atlantic Council, un think tank aggressivo finanziato da una moltitudine di interessi commerciali, mentre un altro è stato senior fellow per sei anni. Il Consiglio atlantico ha la sua quota di donatori dell’industria militare, così come vari governi della Nato e la stessa Nato, ma altre due fonti sono di particolare interesse: System Capital Management (Scm) e la Fondazione Victor Pinchuk.

Pinchuk e Rinat Akhmetov, il capo di Scm, sono due degli uomini più ricchi dell’Ucraina. Alcuni degli oligarchi del paese, tra cui Akhmetov, quando è cominciata l’invasione di Mosca sono fuggiti dal paese, ma presto sono tornati, nonostante i conflitti e le tensioni preesistenti con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Secondo Forbes, il valore dei beni degli oligarchi era fortemente diminuito nelle regioni controllate dai separatisti e in tutto il paese prima della guerra.

«Si sono resi conto che Putin rappresenta una chiara minaccia per tutta l’Ucraina e anche per i loro beni», ha detto a Forbes l’analista ucraino Taras Berezovets. Ha aggiunto che i beni di Akhmetov sono particolarmente a rischio, poiché «la maggior parte delle sue fabbriche e dei suoi beni si trovano a Mariupol e Dnipro». È importante notare che Akhmetov ha anche importanti interessi commerciali in Russia.

Pinchuk, nel frattempo, è da anni uno dei principali donatori del Consiglio atlantico e siede nel suo comitato consultivo internazionale. È solo una delle tante iniziative filo-occidentali e filo-Nato finanziate da Pinchuk nel corso degli anni. Di recente ha commissionato un sondaggio a sostegno di un maggiore sostegno all’Ucraina contro la Russia e in vista della guerra aveva «ospitato molti incontri fuori registro con funzionari occidentali per convincerli a ottenere maggiore assistenza all’Ucraina», ha detto Berezovets a Forbes (Pinchuk finanzia anche Cepa).

Oltre ai due oligarchi, c’è un altro importante interesse commerciale che finanzia sia il Consiglio atlantico che alcune delle altre entità con cui i firmatari della lettera sono allineati: i combustibili fossili. La lista dei suoi finanziatori è piena di compagnie petrolifere come Crescent Petroleum, Abu Dhabi National Oil Company, Chevron, Mubadala Petroleum ed Exxon, insieme al Charles Koch Institute, fondato dal magnate del petrolio.

La guerra è un grande affare per le compagnie di combustibili fossili, col Pentagono che è il più grande consumatore istituzionale di petrolio al mondo. In un mondo che continua a trascinare i piedi nel passaggio a una fonte di energia che alla fine non ci ucciderà tutti, aerei da combattimento, carri armati, veicoli militari e simili funzionano in modo schiacciante con combustibili fossili, così come i veicoli che trasportano decine di migliaia di soldati per combattere in paesi lontani. E questo non significa nemmeno entrare nei combustibili fossili necessari per produrre tutte queste cose.

Non sorprende, quindi, che del Csis facciano parte anche Bp, Chevron, Exxon e Saudi Aramco come principali donatori. Il McCain Institute, dove la firmataria Claire Sechler Merkel è direttrice senior dei programmi dell’Arizona, ha tra i suoi donatori Chevron, MEG Energy e Bp, nonché l’ambasciata saudita e Raytheon. Il Cnas conta tra i suoi contributori Bp, Exxon e il Charles Koch Institute.

Nel frattempo, il Consiglio atlantico, il Cepa e il Project 2049 Institute elencano anche il National Endowment for Democracy (Ned) come finanziatore, mentre Daniel Fried, un altro firmatario, siede nel suo consiglio di amministrazione.

Il Ned, un’entità dal suono benigno il cui creatore ha affermato che fa il lavoro che «è stato svolto di nascosto venticinque anni fa dalla Cia», ha svolto un ruolo importante nello scambio di accuse sull’ingerenza politica tra Russia e Stati uniti in questo secolo, che ha accresciuto le tensioni tra i due paesi. Questo battibecco è culminato nel coinvolgimento di Mosca nelle elezioni statunitensi del 2016, che secondo quanto si dicevano rappresentarono la vendetta di Putin per le azioni della Ned in Russia e altrove all’inizio di quel decennio. Il Ned ha avuto un ruolo importante nell’alimentare la rivoluzione ucraina del 2014, ad esempio, e ha svolto un ruolo importante nella catena di eventi che ha portato a questa guerra in corso.

Infine, vale la pena notare che molti dei firmatari sono stati direttamente coinvolti nella politica della Nato che ha gettato i semi per questo conflitto. Brzezinski ha svolto un ruolo chiave nell’espansione della Nato sotto George W. Bush, mentre Barry Pavel ha guidato la pianificazione della difesa per il primo round di espansione della Nato sotto Bill Clinton. Alexander Vershbow, nel frattempo, «è stato coinvolto a livello centrale» nella «trasformazione della Nato e di altre organizzazioni di sicurezza europee per affrontare le sfide del dopo Guerra fredda» – in altre parole, nel trasformare la Nato da alleanza difensiva ad alleanza offensiva combattendo diverse guerre che non avevano nulla a che fare con la difesa dell’Europa dagli attacchi stranieri, una parte fondamentale del motivo per cui l’establishment russo, non solo Putin, vede l’alleanza come una minaccia.

Inutile dire che quanto sopra non è una giustificazione per la guerra criminale e sempre più distruttiva di Putin. Piuttosto, questi sono punti che sono stati fatti da numerosi esperti di politica estera dell’establishment nel corso dei decenni come fattori alla base che hanno portato allo stato attuale, allo stesso modo in cui il Trattato di Versailles, nonostante le intenzioni dei suoi autori, ha gettato le basi per la Seconda guerra mondiale . Quindi, oltre agli interessi finanziari coinvolti, c’è anche il fattore del giudizio individuale: alcune delle stesse persone che hanno contribuito a portarci in questo pasticcio stanno ora sollecitando un’altra politica potenzialmente disastrosa.

L’unico modo per porre fine a questa guerra senza prolungare le sofferenze degli ucraini o innescare la distruzione globale è un accordo politico tra Russia, Ucraina, Stati uniti e Unione europea. Sfortunatamente, non sembra così sexy o visceralmente soddisfacente come una sparatoria, il che vuol dire che molte persone ricche e potenti non potrebbero fare molti soldi.

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Montly Review sulla guerra in Ucraina

Pubblichiamo l’editoriale di apertura del prossimo numero di aprile di Montly Review, la storica rivista marxista statunitense fondata nel 1949 da Paul Sweezy e Leo Huberman e oggi diretta dall’ecomarxista Jeremy Bellamy Foster. (M.A.)

Mentre scriviamo queste note all’inizio di marzo 2022, la guerra civile limitata che dura da otto anni in Ucraina si è trasformata in una guerra su vasta scala. Questa rappresenta un punto di svolta nella Nuova Guerra Fredda e una grande tragedia umana. Minacciando l’olocausto nucleare globale, questi eventi stanno mettendo in pericolo anche il mondo intero. Per comprendere le origini della Nuova Guerra Fredda e l’inizio dell’attuale ingresso russo nella guerra civile ucraina, è necessario risalire alle decisioni legate alla creazione del Nuovo Ordine Mondiale prese a Washington quando la precedente Guerra Fredda si concluse nel 1991. In pochi mesi, Paul Wolfowitz, allora sottosegretario alla Difesa per la politica nell’amministrazione di George HW Bush, pubblicò una Guida alla politica di difesa affermando: “La nostra politica [dopo la caduta dell’Unione Sovietica] deve ora concentrarsi nuovamente sull’impedire l’emergere di qualsiasi potenziale futuro concorrente globale”. Wolfowitz sottolineò che “la Russia rimarrà la potenza militare più forte in Eurasia”. Sono stati quindi necessari sforzi straordinari per indebolire la posizione geopolitica della Russia in modo permanente e irrevocabile, prima che fosse in grado di riprendersi, portando nell’orbita strategica occidentale tutti quegli stati che ora la circondano che in precedenza erano stati parti dell’Unione Sovietica o che rientravano nella sua sfera di influenza (“Excerpts from Pentagon’s Plan: ‘Preventing the Re-Emergence of a New Rival‘, New York Times , 8 marzo 1992).

La Defense Policy Guidance di Wolfowitz fu adottata da Washington e da tutti i principali pianificatori strategici statunitensi, le cui opinioni a quel punto tornavano sempre più indietro alle classiche dottrine geopolitiche introdotte da Halford Mackinder nella Gran Bretagna imperiale prima della prima guerra mondiale, e che furono ulteriormente sviluppate da Karl Haushofer nella Germania nazista e Nicholas John Spykman negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40. Fu Mackinder che nel 1904 introdusse l’idea che il controllo geopolitico del mondo dipendesse dal dominio dell’Eurasia (la principale massa continentale dei continenti europeo e asiatico), che chiamò Heartland. Il resto dell’Asia e dell’Africa insieme all’Heartland formavano l’Isola Mondo. Così è nato il suo detto spesso citato:

«Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo»

Questa dottrina geopolitica era, fin dall’inizio, mirata al dominio del mondo e da allora ha governato la strategia imperiale delle principali nazioni capitaliste, nella forma di quella che viene comunemente definita “grande strategia”. Ma mentre ha dettato il pensiero di figure della sicurezza nazionale degli Stati Uniti come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, la geopolitica è stata per molto tempo sottovalutata nella sfera pubblica a causa dell’identificazione popolare di essa con le dottrine della Germania nazista. Tuttavia, con la fine dell’Unione Sovietica e la crescita degli Stati Uniti come potenza unipolare, la geopolitica e la dottrina di Heartland furono ancora una volta apertamente dichiarate dai pianificatori strategici statunitensi, generando una nuova grande strategia imperiale post-Guerra Fredda (John Bellamy Foster , “The New Geopolitics of Empire,” Monthly Review 57, no. 8 [January 2006]).

L’architetto più importante di questa nuova strategia imperiale fu Brzezinski, che in precedenza, in qualità di consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, aveva teso la trappola ai sovietici in Afghanistan. Fu sotto la direzione di Brzezinski, a seguito di una direttiva segreta firmata da Carter nel luglio 1979, che la CIA, collaborando con l’arco dell’Islam politico che si estende dal Pakistan di Muhammad Zia-ul Haq ai reali sauditi, reclutò, armò e addestrò i Mujaheddin in Afghanistan. La formazione da parte della CIA dei Mujaheddin e di vari gruppi terroristici in Afghanistan accelerò l’intervento sovietico, portando a una guerra senza fine che ha contribuito alla destabilizzazione della stessa Unione Sovietica. Alla domanda se si sia pentito di aver stabilito l’arco del terrorismo che avrebbe portato all’11 settembre e oltre, Brzezinski (che ha posato in foto con i combattenti mujaheddin) rispose semplicemente dicendo che ne era valsa la pena vista la distruzione dell’Unione Sovietica (Natylie Baldwin, “Brzezinski’s Mad Imperial Strategy,” Natylie’s Place, August 13, 2014; Ted Snider, “Living with Brzezinski’s Mess,” Antiwar.com, August 26, 2021, “Brzezinski’s Prophecy About Ukraine,” Teller Report, February 15, 2022).

Brzezinski rimase un consigliere chiave per le successive amministrazioni statunitensi, ma non ebbe un ruolo ufficiale di primo piano, data la sua reputazione da falco e la visione estremamente negativa di lui in una Russia, che, all’inizio degli anni ’90 sotto Boris Eltsin, aveva uno stretto legame simile a quello di un burattino con Washington. Tuttavia, più di ogni altro pensatore strategico statunitense, è stato Brzezinski ad articolare la grande strategia statunitense sulla Russia che è stata portata avanti in tre decenni dalle successive amministrazioni statunitensi. Le guerre della NATO che hanno smembrato la Jugoslavia negli anni ’90 si sono sovrapposte all’inizio dell’espansione della NATO verso est. Washington aveva promesso al Cremlino sotto Mikhail Gorbaciov, al momento della riunificazione tedesca, che la NATO non si sarebbe allargata “nemmeno di un pollice” a est nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Tuttavia, nell’ottobre 1996, Bill Clinton, durante la campagna per la rielezione, dichiarò di essere favorevole all’espansione della NATO nell’ex sfera sovietica e l’anno successivo fu avviata la politica seguita da tutte le successive amministrazioni statunitensi. Poco dopo, nel 1997, Brzezinski pubblicò il suo libro, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, in cui dichiarava che gli Stati Uniti stavano “per la prima volta in assoluto [per] una potenza non eurasiatica” per diventare “l’arbitro chiave delle relazioni di potere eurasiatiche”, mentre costituivano anche “la potenza suprema del mondo”. In questo modo, gli Stati Uniti sarebbero diventati il “primo” e l’”ultimo” impero globale (Brzezinski, Grand Chessboard [Basic Books, 1997], xiii, 209; Diana Johnstone,  Fool’s Crusade [Monthly Review Press, 2002]; “NATO Expansion: What Gorbachev Heard,” National Security Archive, George Washington University; “President W. J. Clinton to the People of Detroit,” United States Information Agency, October 22, 1996).

Affinché l’Alleanza Atlantica sotto la guida degli Stati Uniti dominasse l’Eurasia, era prima necessario che ottenesse il primato su quello che Brzezinski chiamava “il buco nero” lasciato dall’uscita dell’Unione Sovietica dalla scena mondiale. Questo significava cercare di indebolire la Russia al punto che non potesse più rivendicare lo status di grande potenza. Il “perno geopolitico” chiave su cui fare leva, insisteva Brzezinski, era l’Ucraina. Persa l’Ucraina, la Russia sarebbe stata irrevocabilmente indebolita, mentre un’Ucraina incorporata come parte della NATO sarebbe stata un pugnale nel cuore di Mosca. Tuttavia, qualsiasi tentativo di rivoltare l’Ucraina contro la Russia, avvertiva, sarebbe visto come una grave minaccia alla sicurezza, una linea rossa, dalla Russia stessa. Questo poi richiedeva “l’allargamento della NATO”, estendendola fino all’Ucraina, spostando le armi strategiche a est, con l’obiettivo di ottenere infine il controllo dell’Ucraina stessa. L’attuazione di questa grande strategia avrebbe reso anche l’Europa, in particolare la Germania, più dipendente dagli Stati Uniti, minando l’indipendenza dell’Unione Europea (Brzezinski, Grand Chessboard, 41, 87–92, 113, 121–22, 200).

C’erano, ovviamente, dei rischi per il grande gioco. Sebbene gli Stati Uniti, affermava Brzezinski, dovrebbero sostenere l’espansione della NATO fino in fondo nell’ex Unione Sovietica, penetrando in Ucraina, con la quale la Russia condivide un confine di 1.200 miglia, osservava che, se questa iniziativa avesse successo, inevitabilmente costringerebbe la Russia tra le braccia della Cina. Cina e Russia potrebbero formare un “blocco antiegemonico” opposto agli Stati Uniti, forse includendo anche l’Iran. Il risultato sarebbe una situazione geopolitica simile all’inizio della Guerra Fredda ai tempi del blocco sino-sovietico, anche se questa volta con una Russia molto più debole e una Cina molto più forte. La risposta a questo, nella mente di Brzezinski, era fare pressione sulla Cina attraverso Taiwan e Hong Kong, e anche nella penisola coreana, e attraverso la promozione di un’alleanza allargata incentrata su Giappone e Australia.

Tuttavia, in tutto questo, secondo la dottrina di Brzezinski, la chiave dello scacco matto della Russia, e l’anello debole con cui Washington potrebbe conquistare il dominio sull’Eurasia, resta l’Ucraina. Il completo dominio USA/NATO dell’Ucraina era una minaccia di morte virtuale per la Russia, forse anche puntando, sotto ulteriore pressione, alla sua stessa disgregazione in stati minori. La Cina sarebbe quindi destabilizzata anche dal suo Far West (Brzezinski, Grand Chessboard , 103, 116–17, 164–70, 188–90).

La relazione tra la strategia della “grande scacchiera” di Brzezinski e le azioni effettivamente intraprese da Washington negli ultimi tre decenni dovrebbe essere ovvia. Dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, la NATO ha assorbito quindici paesi, tutti a est, che in precedenza facevano parte del Patto di Varsavia o erano regioni all’interno dell’Unione Sovietica. A est, lungo i confini di Russia, Bielorussia e Ucraina, la NATO ha assistito a un importante potenziamento militare. Attualmente ha una presenza aerea in Estonia, Lituania e Romania. Le truppe statunitensi e le truppe multinazionali della NATO sono ammassate in Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. Le strutture di difesa missilistica della NATO si trovano in Polonia e Romania. L’oggetto di tutte queste installazioni militari avanzate (per non parlare di quelle nell’Europa centrale e occidentale) è la Russia (““Here’s Where Alliance Forces Are Deployed Across Eastern Europe,” CNN, February 10, 2022; “Why Russia Wanted Security Guarantees from the West,” Strategic Culture Foundation, February 27, 2022).

Nel 2014, Washington ha aiutato a progettare un colpo di stato in Ucraina rovesciando il presidente democraticamente eletto Victor Yanukovich. Yanukovich era stato amico dell’Occidente. Ma di fronte alle condizionalità finanziarie imposte dal Fondo Monetario Internazionale, il suo governo si rivolse alla Russia per un aiuto economico, facendo infuriare l’Occidente. Questo portò al colpo di stato di Maidan solo pochi mesi dopo, con il nuovo leader ucraino selezionato dagli Stati Uniti. Il colpo di stato fu compiuto in parte dalle forze neonaziste, che hanno radici storiche nelle truppe fasciste ucraine che collaborarono con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Oggi queste forze sono concentrate nel Battaglione Azov, ora parte dell’esercito ucraino supportato dagli Stati Uniti. Il dominio dell’Ucraina da parte delle forze ultranazionaliste ucraine di destra e dei gruppi russofobi a seguito del colpo di stato ha portato a ribellioni nella regione del Donbass orientale del paese e a una brutale repressione, con più di quaranta persone bruciate vive nell’edificio pubblico del sindacato a Odessa, dove si erano rifugiate, per mano di forze di destra (Bryce Green, “What You Should Really Know About Ukraine,” FAIR, February 24, 2022; David Levine, “Council of Europe Report on Far-Right Massacre in Odessa,” Word Socialist Web Site, January 19, 2016).

In seguito al colpo di stato, la Crimea, a maggioranza russa, ha deciso di fondersi con la Russia attraverso un referendum in cui anche al popolo della Crimea è stata data la possibilità di andare avanti come parte dell’Ucraina. La regione del Donbas, in gran parte di lingua russa, nella parte orientale del Paese, nel frattempo si è staccata dall’Ucraina, in risposta alla violenta repressione contro l’etnia russa scatenata dal nuovo governo di destra. Questo ha portato alla formazione di due repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk nel contesto della guerra civile ucraina. Luhansk e Donetsk hanno ricevuto il sostegno militare dalla Russia, mentre l’Ucraina (Kiev) ha ricevuto un sostegno militare occidentale sempre maggiore, avviando di fatto il processo a più lungo termine di incorporazione dell’Ucraina nella NATO (Arina Tsukanova, “So Who Annexed the Crimean Peninsula Then,” Strategic Culture Foundation, March 28, 2017; “What Donetsk and Lugansk People’s Republics Are,” Strategic Culture Foundation, February 28, 2022).

Nella guerra dell’Ucraina contro la popolazione di lingua russa nelle repubbliche separatiste del Donbass, circa 14.000 persone sono state uccise e 2,5 milioni di persone sono state sfollate, la maggior parte delle quali si è rifugiata in Russia. Il conflitto iniziale si è concluso con la firma nel 2014-15 degli accordi di Minsk da parte di Francia, Germania, Russia e Ucraina e approvati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo questi accordi, Donetsk e Luhansk avrebbero dovuto ottenere il diritto all’autogoverno, pur rimanendo parte dell’Ucraina. Tuttavia, il conflitto militare è continuato e alla fine si è intensificato di nuovo. Nel febbraio 2022, c’erano 130.000 soldati ucraini che assediavano e sparavano su Luhansk e Donetsk, distruggendo di fatto gli accordi di Minsk (Abdul Rahman, “What Are the Minsk Agreements—And What Are Their Role in the Russia-Ukraine Crisis,” February 22, 2022; “Who Is Firing at Whom And Who Is Lying About It?,” Moon of Alabama, February 20, 2022).

La Russia ha insistito sul rispetto degli accordi di Minsk insieme alla richiesta che l’Ucraina non fosse coinvolta nella NATO e che il rapido rafforzamento militare sostenuto dagli Stati Uniti in Ucraina diretto contro le repubbliche del Donbas cessasse. Vladimir Putin ha dichiarato che queste richieste erano tutte “linee rosse” per la sicurezza della Russia, che se superate avrebbero costretto Mosca a rispondere. Quando l’Ucraina e la NATO dominata dagli Stati Uniti hanno continuato a superare la linea rossa, la Russia è intervenuta massicciamente nella guerra civile in corso in Ucraina in alleanza con Donetsk e Luhansk.

La guerra è un crimine contro l’umanità e oggi la guerra tra le grandi potenze minaccia l’annientamento totale. L’unica risposta è dare una possibilità alla pace, e questo richiede di trovare una soluzione che garantisca la sicurezza di tutte le parti coinvolte nella guerra civile in Ucraina e in Russia. In una prospettiva più ampia, dobbiamo riconoscere che la guerra è endemica del capitalismo e che sia la Russia che le potenze della NATO sono capitaliste. Solo un ritorno al percorso socialista sia in Ucraina che in Russia può offrire una soluzione duratura.

10 marzo 2022

traduzione di Maurizio Acerbo 

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“ Il capitalismo e la logica del profitto non solo sfruttano il lavoro e la natura in un modo mai visto e distruttivo, ma hanno rimesso in circolo la guerra e il rischio concreto della guerra nucleare. Si tratta di una situazione gravissima e pericolosissima da cui occorre uscire con un salto di paradigma. Il capitalismo è incompatibile con una esistenza civile della specie umana sul Pianeta” (Paolo Ferrero)

PACE O BARBARIE

Pubblicato da franco.cilenti

Intervista di Alba Vastano a Paolo Ferrero, Prc. Vice presidente Sinistra europea.

Solo pochi giorni fa aleggiavano venti di rinnovato ottimismo per la fase discendente della pandemia e una prudente euforia per il ritorno alla normalità si andava diffondendo da persona a persona, di città in città. ‘La guerra imprevista contro il virus l’abbiamo vinta, per ora,- si vociferava- intanto ci riprendiamo la nostra vita, la nostra libertà’. Non sta andando così e il virus non è il motivo. Cambio di paradigma. Dal 24 febbraio stravolge la nostra vita un’altra guerra. Una guerra vera questa volta, fatta da uomini e con le armi. Una guerra prevista, perché scatenata dai fatti storici precedenti e dal mancato rispetto degli accordi risalenti al 2014 (Minsk) Una guerra scaturita dall’odio fra uomini che del potere ne hanno fatto la ragione della loro squallida e irresponsabile vita, provocando da molto tempo una reazione a catena di violenze e soprusi su popoli indifesi. Oggi, 77 anni dopo la fine del conflitto mondiale, siamo di nuovo sull’orlo del baratro. Ci salverà solo un forte movimento pacifista e l’uscire dal sonno delle ragione che, com’è noto, non può che generare mostri.

Dell’invasione dell’Ucraina, da parte di Putin, delle motivazioni di questo efferato gesto, della storia di lungo corso che c’è dietro, del pericolosissimo precipitare degli eventi da scongiurare avanzi e delle possibili soluzioni, ma anche del miracolo Cuba (nonostante il bloqueo) ce ne parla Paolo Ferrero, del partito della Rifondazione comunista e vicepresidente della Sinistra europea. Ѐ di ritorno da Cuba, dove ha potuto constatare come un Paese, sia pur sottoposto alla pressione imperialista da lungo tempo, ha mantenuto alto il livello di partecipazione popolare e della democrazia. Cuba, nel biennio che ha visto il mondo stravolto dalla pandemia, ha mostrato la sua vera anima basata sulla solidarietà fra i popoli e ha dato vita, grazie al progresso delle scienze biotecnologiche ad un vaccino che ha salvato l’intera comunità cubana. La parola a Paolo Ferrero

Alba Vastano: Torni da Cuba da pochi giorni. Come hai trovato la realtà del paese?

Paolo Ferrero: La situazione a Cuba è oggi molto difficile a causa del blocco economico statunitense che si è sommato alla riduzione del turismo internazionale a causa del COVID. Infatti il bloqueo impedisce a Cuba di commerciare con l’estero vietandole di vendere i suoi prodotti. Per non fare che un esempio l’industria biomedicale di Cuba, che è un fiore all’occhiello dell’isola, ha venduto nel corso di questi anni 200 milioni di dollari di prodotti all’estero. Di questi a Cuba ne sono entrati solo 80 perché il criminale blocco economico rende difficilissimo alle banche di poter trasferire il denaro a Cuba.

Questo fa sì che Cuba abbia da 60 anni difficoltà a recuperare valuta pregiata con cui pagare le merci che deve comprare all’estero. In questo contesto il turismo è stato storicamente una fonte di valuta pregiata assai rilevante per l’isola. Con la sindemia del COVID, che negli ultimi due anni ha ridotto drasticamente il turismo mondiale, questa fonte di ingressi è crollata e così l’economia cubana è in una condizione molto dura. Non hanno i soldi per importare dall’estero quello che serve e questo si fa sentire sul livello di vita della popolazione.

In questo contesto negativo dovuto all’arbitrio criminale del governo statunitense, la risposta del governo Cubano è stata molto positiva perché è una risposta fondata sull’aumento della partecipazione popolare e sull’allargamento della democrazia. Negli anni scorsi è stata varata la nuova Costituzione dopo un lungo processo di partecipazione popolare e in questi mesi è in corso di discussione il nuovo codice delle famiglie, che è stato varato dal Parlamento, che è in fase di discussione ed emendato dalle assemblee popolari. Infine tornerà in Parlamento per la stesura definitiva. Considero un fatto importantissimo, ed è la vera specificità di Cuba, che a fronte delle difficoltà determinate dall’imperialismo statunitense si risponda con un allargamento della partecipazione popolare. In questo contesto anche il gesto di andare a fare le vacanze a Cuba rappresenta un gesto concreto di solidarietà.

A. V.: In questo contesto però a Cuba sono riusciti a sviluppare i vaccini contro il Covid. Alcuni ricercatori, tra cui il nostro Fabrizio Chiodo (1), hanno fatto miracoli con la ricerca e la produzione vaccini. In Ue solo Big-Pharma con brevetti privati e zero in quella parte di mondo da sempre priva di mezzi e interventi a tutela della salute pubblica. Come hanno fatto? Quali sono gli ostacoli di oggi nel non poter accedere a questi vaccini?

P. F.: Questo è il risultato palese della superiorità della ricerca pubblica rispetto a quella privata. A Cuba, con mezzi limitatissimi, sono riusciti a dar vita a più vaccini efficacissimi contro il COVID, infatti nell’isola le morti sono una frazione di quelle che si registrano nel vecchio continente e segnatamente in Italia. Questo enorme successo della ricerca pubblica cubana è quasi inutilizzabile all’estero a causa del blocco economico. Ѐ infatti evidente che il bloqueo si scaglia anche contro il vaccino e rende quasi impossibile la sua commercializzazione. Inoltre per produrre il vaccino in grandi quantità di dosi con gli standard produttivi europei servirebbe tecnologia. Non ricerca ma proprio tecnologia, macchinari, etc. Ѐ proprio quella tecnologia meccanica di importazione a cui Cuba non può accedere a causa del Blocco economico. Anche per questo la solidarietà internazionale ha come punto centrale la lotta concreta contro il Bloqueo: campagne di massa di sensibilizzazione politica ma anche concretamente cercare strade attraverso cui costruire relazioni economiche tra Cuba e il resto del mondo. Il miglioramento della situazione economica di Cuba è fondamentale per poter sviluppare positivamente la società cubana.

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A. V.: Torni da Cuba con importanti e propositive testimonianze e trovi un’Europa in cui soffiano minacciosi venti di guerra. La scintilla l’accende Putin, riconoscendo le repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk e dando il via all’invasione dell’Ucraina. Che ne pensi?

P. F.: Penso che l’azione di Putin di aprire la guerra sia una azione gravissima e da condannare totalmente. Putin ha compiuto una violazione del diritto internazionale simile a quella fatta dagli Stati Uniti e i paesi occidentali contro l’ex Jugoslavia, l’Afganistan, l’Iraq, la Libia. La guerra non è mai la soluzione per i problemi e Putin ha fatto una scelta sbagliata e pericolosissima. Per questo è necessario lavorare per la tregua immediata, per la ripresa dei negoziati, al fine di poter determinare un cessate il fuoco il più rapidamente possibile. Ѐ infatti evidente che la prosecuzione del conflitto oltre a produrre morti e devastazione producono odi che diventano sempre più grandi. Più dura la guerra e più l’odio accumulato produrrà altri disastri negli anni a venire. Per questo occorre battersi per la fine immediata delle ostilità e per questo occorre rivendicare che il governo italiano mandi aiuti ai civili e non aiuti militari. Le armi vanno fatte tacere, non aumentate.

A. V.: Pensi quindi che l’Occidente stia sbagliando nella risposta che sta dando a Putin?

P. F.: Penso che Putin abbia fatto una passo gravissimo che è quello di cominciare la guerra, ma che è del tutto evidente che le mosse dei Paesi occidentali negli anni scorsi hanno determinato il contesto in cui questa guerra è nata. In primo luogo la scelta dei paesi occidentali e degli Stati uniti di allargare la NATO ad est. Dopo il crollo del muro di Berlino la riunificazione della Germania avvenne in un contesto di accordo generale sul non allargamento della NATO ad est. Così è stato per un decennio e poi in concomitanza con la guerra contro la ex Jugoslavia è cominciata una azione folle in cui oltre 20 paesi dell’est europeo sono entrati a far parte della NATO.

In questo contesto, dopo lo scioglimento del patto di Varsavia, è del tutto evidente che la NATO non ha più alcuna traccia di una alleanza difensiva ma ha unicamente una funzione offensiva e intimidatoria di gendarme mondiale. Che questo non sia tollerabile per la Russia – qualunque sia il suo governo – è del tutto evidente. Chi ha lavorato per estendere la NATO ad est ha lavorato per porre le basi della guerra, ha lavorato contro la pace. Per questo sono insopportabili tutti coloro che oggi versano lacrime di coccodrillo, dopo aver detto signorsi ad ogni richiesta statunitense.

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A. V.: Non possiamo neanche ignorare che gli accordi Di Minsk del 2014 non hanno mai trovato applicazione e che c’è stata una responsabilità della Nato per favorire le truppe neonaziste nel territorio di tutta la regione interessata alla guerra in corso. Non possiamo neanche dimenticare quanto di tragico è avvenuto nel Donbass.

P. F.: Assolutamente no. Questa è l’altra grande responsabilità del governo ucraino e dei paesi occidentali, che non si sono mai battuti per l’applicazione degli accordi del 2014 e permesso alle milizie neonaziste di boicottarli e di continuare nelle azioni militari contro le repubbliche autonome. Non solo. Addirittura hanno incorporato il battaglione Azof nella guarda Nazionale Ucraina, dando così una copertura legale a questa milizia neonazista.

I paesi occidentali avrebbero potuto in ogni momento obbligare il governo ucraino al rispetto degli accordi ed a mettere la mordacchia ai paramilitari neonazisti. Così non è stato per deliberata volontà politica. Abbiamo quindi una enorme responsabilità dei governi occidentali nell’aver fatto marcire la situazione in Ucraina, determinando una condizione in cui è maturata questa folle scelta di guerra.

A. V.: Di fronte a questo scenario manifesto di guerra, molto pericoloso per una possibile escalation degli eventi, quale posizione dovrebbe prendere l’Occidente e cosa dovrebbe mettere in atto il movimento pacifista?

P. F.: Innanzitutto lavorare per la fine immediata della guerra e per determinare condizioni che portino ad una pace duratura, non agire per allargare la guerra. Questo è un punto decisivo. Il nostro nemico è la guerra e contro questo nemico occorre concentrare tutte le energie. In questa situazione ogni persona che voglia la pace dovrebbe favorire il dialogo, dovrebbe incentivarlo. Perché l’unico modo per ridurre i danni di questa guerra è quello di terminarla in prima possibile, di far tacere le armi. Su questo piano il Papa è indubbiamente un nostro prezioso alleato in quanto sostiene le nostre stesse posizioni.

I governi occidentali vogliono far credere che ci troviamo oggi dinnanzi ad una situazione come quella della Seconda guerra mondiale, in cui si tratta di fermare il nuovo Hitler. Non è così: non c’è da un lato il male assoluto e dall’altra i buoni. Putin ha fatto le stesse cose di Bush. Noi oggi siamo come nella Prima guerra mondiale in cui la condanna a chi ha cominciato la guerra deve andare di pari passo con l’evidenza delle comuni responsabilità per la situazione degradata. Come nella Prima guerra mondiale non ci possono essere né vincitori né vinti, perché se la guerra va avanti saremo tutti perdenti, in primo luogo gli Ucraini. Il rischio anzi, se la guerra prosegue, è che si allarghi e diventi un conflitto nucleare.

L’unica strada è il dialogo tra coloro che oggi si combattono per trovare quel compromesso che non è stato costruito – con gravissime responsabilità dell’Occidente – negli anni scorsi. Di fonte alla guerra non bisogna schierarsi da una parte o dall’altra, ma operare concretamente per farla finire, come fece giustamente Lenin nel 1917. La rivoluzione Russa, è bene ricordarselo, avvenne attorno a due parole d’ordine: la pace e la terra ai contadini. La pace è quindi il fattore costitutivo del movimento comunista, è la prima manifestazione concreta che questo ha avuto a livello di massa. Di fronte alle borghesie imperialiste che si scontravano per la supremazia, il movimento comunista ha saputo indicare la via della lotta alla guerra, della pace, come punto fondamentale della trasformazione sociale.

Questo è il contrario di ciò stanno facendo i Paesi occidentali e l’Unione Europea che invece di operare per il dialogo si è arruolata nella guerra diventando parte del problema e non della soluzione. Vergognosa la posizione del governo Draghi che in Senato ha affermato che “non è il momento di trattare” e nel contempo si impegna ad inviare armi per “vincere la guerra”. Si tratta di una posizione completamente sbagliata, per la guerra e contro la pace, che contribuirà solo ad aumentare le sofferenze dei popoli ucraini e le conseguenze negative della guerra sul popolo italiano.

A. V.: Questione rifornimenti gas per il nostro Paese. La Russia è il nostra maggior fornitore, ne riceviamo il 41% del fabbisogno nazionale. Le sanzioni più severe, infine, saranno un autogol per noi? Considerando che la Russia dispone di enormi risorse naturali che la rendono autonoma e non ha debiti con l’Ue?

P. F.: Ѐ del tutto evidente che uno degli obiettivi degli USA in tutti questi anni è quello di togliere ogni autonomia all’Europa e la possibilità che questa sviluppi un rapporto positivo con la Russia. Questa guerra scatenata da Putin permette agli USA di realizzare larga parte dei propri obiettivi. Gli odi e la contrapposizione che si svilupperanno da questa guerra determineranno una contrapposizione tra Russia ed Europa invece che una cooperazione.

Sul gas l’obiettivo degli USA è di interrompere il rapporto con la Russia e di aumentare la dipendenza dell’Europa dagli USA. Questo determinerebbe per gli USA vantaggi economici e politici: economici perché il prezzo del gas statunitense è più del doppio di quello russo e quindi grande sarebbe il flusso di denaro dall’Europa verso gli Usa . Politico perché l’Europa diventerebbe dipendente energeticamente dagli USA, con tutte le conseguenze del caso. Il problema non è oggi la dipendenza dell’Europa dalla Russia, ma il rischio di dipendenza dagli USA.

A. V.: Come stato Ue siamo finiti nella black list del Cremlino per aver contribuito ad armare l’Ucraina? Considerando i nostri rapporti economici, in particolare per il gas, a fine guerra, quanto la pagheremo in sanzioni? Da sanzionatori a sanzionati?

P. F.: Il governo italiano ha colpevolmente assunto una posizione che nei fatti è di conflitto con la Russia. Si tratta di un errore drammatico perché il nostro paese avrebbe dovuto giocare un ruolo per la trattativa e non nell’alimentare il conflitto. Gli effetti economici di questa guerra per gli strati popolari saranno devastanti in termini di disoccupazione come in termina di perdita del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni.

L’Europa ha una economia intrecciata con quella Russa e questo intreccio dovrebbe essere sviluppato e coltivato. Al contrario le sanzioni rompono ogni legame con la Russia e mettono l’Europa completamente nelle mani degli Stati Uniti. Pagheremo duramente queste scelte sbagliate. Anche per questo è necessario intrecciare la lotta contro la guerra con la lotta al carovita, per difendere le condizioni di vita degli strati popolari dagli effetti della guerra. Occorre rivendicare che il governo blocchi le tariffe, il prezzo del gas, i prezzi dei generi alimentari e occorre rivendicare la scala mobile e l’aumento delle pensioni più basse. La lotta alla guerra deve saldarsi alla lotta contro gli effetti che la guerra ha sui più deboli. Solo tenendo insieme le ragioni generali della pace con la difesa degli interessi materiali immediati degli strati popolari potremmo costruire un movimento contro la guerra largo e così forte da obbligare i governi a cambiare politica. Questo è il nostro compito.

A. V.: Per concludere, come vedi questa situazione in generale? I Tavoli per possibili accordi troveranno dei buoni mediatori e quali? Vi è l’effettivo pericolo che l’Ucraina, messa con le spalle al muro per il genocidio in corso, dovrà rinunciare alla sua sovranità?

P. F.: Ѐ del tutto evidente che siamo in una situazione in cui il bivio tra socialismo o barbarie è dispiegato in tutta la sua drammatica attualità. Il capitalismo e la logica del profitto non solo sfruttano il lavoro e la natura in un modo mai visto e distruttivo, ma hanno rimesso in circolo la guerra e il rischio concreto della guerra nucleare. Si tratta di una situazione pericolosissima da cui occorre uscire con un salto di paradigma. Il punto vero è che capitalismo è incompatibile con una esistenza civile della specie umana sul Pianeta.

Occorre quindi riproporre l’attualità del comunismo, del superamento della logica del profitto e di un nuovo umanesimo fondato sul legame tra eguaglianza, libertà solidarietà e cooperazione. Occorre proporre il comunismo come nuovo umanesimo in grado di utilizzare le conquiste della scienza e della tecnica a fini sociali e ambientali. Occorre riproporre il comunismo come semplicità difficile a farsi, come unico possibile esito positivo della parabola del genere umano.

Il punto è che questa proposta radicale di superamento del capitalismo non può essere presentata come un sogno ma deve radicarsi in obiettivi concreti ed in concreti movimenti di lotta. Da questo punto di vista la costruzione di un grande movimento mondiale contro la guerra, da intrecciare con il movimento delle donne e dei giovani di Friday for future, è un primo passo. La stessa lotta per la pace non può essere presentata solo come battaglia generale. Dobbiamo intrecciare la lotta contro la guerra alla lotta contro il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari. La guerra farà aumentare i prezzi delle tariffe e dei generi alimentari. Dobbiamo intrecciare il no alla guerra con la lotta contro il carovita, per il blocco delle tariffe, per la reintroduzione della scala mobile.

In altri termini, dobbiamo avere molta più attenzione nel tenere unite le lotte generali ed ideali dalle lotte per la difesa delle condizioni materiali delle classi subalterne. Occorre intrecciare fortemente questi due livelli, occorre battersi per il pane e le rose, cioè per la pace, l’ambiente, i diritti delle donne, il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, la sanità pubblica. Tutti questi aspetti debbono essere tenuti insieme se vogliamo che la parola comunismo torni ad essere comprensibile non solo come tema culturale ma come pratica sociale di massa. Così come occorre dire una volta per tutte che la lotta pe ril socialismo è una lotta per il superamento dello sfruttamento di classe intrecciata alla lotta per il superamento di ogni sfruttamento e di ogni gerarchia sociale: fondata sul genere, sul colore della pelle, sull’appartenenza nazionale, e così via. La lotta per il socialismo è la lotta di tutte e tutti gli sfruttati contro tutte le strutture di sfruttamento, per la liberazione degli uomini e delle donne.

(1) Lasciar parlare la scienza. Far tacere lo scientismoIntervista .

Intervista a cura di Alba Vastano

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Jalta 2.0

Roberto Morea di Roberto Morea – sito Trasform! Italia

Era in corso ancora la  seconda guerra mondiale quando Roosevelt, Churchill e Stalin si incontrarono in Crimea per discutere degli assetti del mondo dopo il conflitto. A dire che per chiudere una guerra occorre preparare la pace.

Di Jalta naturalmente si può discutere. Si possono sottolineare gli aspetti “spartitori” e riflettere su come non impedì che ci fosse poi la guerra fredda. Ma pose le basi per un lungo periodo che consentì uno straordinario sviluppo dopo le devastazioni delle due guerre mondiali. Ebbe a decidere punti importanti. Il primo, la nascita dell’ONU che infatti vide la luce subito dopo. Il secondo, la rinascita dell’Europa. Certo divisa tra i due blocchi, ma per la prima volta non in guerre armate.

L”89 ha posto fine all’ordine di Jalta. I “vincitori” pensarono che ormai il nuovo ordine si sarebbe costruito da sé. Al traino della globalizzazione capitalistica e delle sue “istituzioni”. I vari WTO, FMI, G7/8/20. Che non sia stato così ormai dovrebbe essere evidente. Siamo passati di guerra in guerra, di crisi in crisi. Fino all’attuale binomio pandemia/rischio di nuova guerra mondiale.

Oltre ai fatti sono degenerate le “identità” tra nazionalismi e liberal bellicismo, accompagnati tutti da suprematismi. Il tutto alimentato da revisionismi storici e revanscismo.

Ciò accade mentre dovrebbe essere evidente che assetti unipolari non hanno nessuna corrispondenza rispetto ad una realtà sempre più complessa e che non può essere governata col riduzionismo mercatorio. Dello spostamento dell’asse della Storia da Ovest ad Est parlano tutti. Come delle contraddizioni esplosive dei Sud.

È impressionante che però ciò non venga affrontato se non per la gestione “ordinaria” del grande mercato e quella “straordinaria” delle crisi. Gestioni straordinarie a “geometrie e valori variabili”, cioè appese a rapporti di forza che però sono instabili.

In realtà tutto ciò è “teorizzato” dai “pensatori” delle guerre preventive, permanenti e dei vari suprematismi. Che questi “pensieri” siano connessi alla sopravvivenza del genere umano è però assai discutibile e la profezia marxiana sulla barbarie mai come oggi appare attuale. Per altro ho definito pensatori quelli che sono in realtà ormai una vera oligarchia politica economica trasversale che oggi spartisce domani si sbrana per poi ridefinire le spartizioni. Riccardo Petrella li chiama i dominanti. Sono i signori delle sliding doors, oggi capi politici, domani economici, un altro giorno militari.

Questa gestione del Mondo è come l’orchestrina del Titanic. Sdogana ogni giorno più veleni. Purtroppo la UE ne è parte significativa con la sua “politica” che ha ballato tra la NATO e Gazprom ed ora è a un passo dalla collisione finale. Le retoriche militaresche alzano il volume del frastuono, rendendo sordi, oltreché ciechi, all’arrivo dell’iceberg. In Italia il meglio delle tradizioni di sinistra e cattoliche si trova in piazza, mentre politica e massmedia sembrano tornati al 1914.

Ma, se la questione in campo è fermare subito la guerra trattando la pace, la dimensione dei problemi richiederebbe che finalmente ci fosse anche una nuova discussione globale sugli assetti del mondo, per un nuovo ordine democratico. Ciò che non si è fatto nell”89 quando per altro si lasciò solo Gorbaciov a pensarlo.

Purtroppo non c’erano più i Berlinguer, i Palme, i Brandt a fare si che l’Europa si facesse fulcro e motore di questo nuovo ordine mondiale democratico.

Ora ciò è indispensabile. Una nuova Jalta, non per spartire, ma per condividere. Magari ripartendo dall’ONU che a Jalta fu inventata. Sciogliendo le alleanze militari e affidando all’ONU i compiti di democrazia e sicurezza globali. Magari coadiuvata da Parlamenti Continentali. E da strutture per la cooperazione globale, economica, ambientale, democratica.

Utopia? Di fronte alla guerra solo la pace è realismo.

di Roberto Musacchio

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La sinistra russa all’ombra di Putin

 Maria Pia Calemme dal sito Trasform! Italia

Non è facile interpretare la reazione dell’opinione pubblica russa alla decisione di Putin di avviare un’invasione militare (per ora parziale) dell’Ucraina che sta avendo un forte impatto non solo all’interno del Paese ma anche sul contesto globale. Ci sono state manifestazioni importanti contro la guerra, represse con molta determinazione dalle forze di polizia governative, ma non sappiamo quanto queste rappresentino un dissenso più generalizzato di quello che normalmente coinvolge il ceto medio delle grandi città. E’ probabilmente radicata l’idea che la Russia sia stata tradita nelle sue aspettative dagli Stati Uniti e dalle forze atlantiche, dopo essere stata illusa di poter partecipare alla cogestione del mondo (con l’inclusione nel G8 ed altre analoghe iniziative), come grande potenza seppure non più alla pari con gli Stati Uniti.

A questo senso diffuso di frustrazione fa da contraltare il disagio per aver scelto la soluzione militare per risolvere un conflitto che vede protagonisti due popoli con una lunga storia condivisa e che nel caso dell’Ucraina, vede in prima fila a pagare le conseguenze dell’azione militare proprio la minoranza russa, che si dichiara di voler difendere. Altro elemento di incertezza è dato dall’impatto che cominceranno ad avere le sanzioni decise dai paesi occidentali. Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze di questa disconnessione dal contesto economico globale, non tanto per i ceti medio-alti delle grandi città quanto per la Russia periferica e “profonda”. Anziché indebolire il consenso per Putin potrebbero consolidarlo nella convinzione di essere vittima, come popolo, di una ritornante “russofobia”.

In questo quadro, la cui evoluzione non potrà che essere collegata a quanto accadrà sul terreno militare e alla durata del conflitto, si collocano le forze di sinistra russe che hanno preso posizione sulla guerra.

La principale formazione politica, il Partito Comunista della Federazione Russa, si è schierato a favore di quella che, con molta ipocrisia, è stata ufficialmente definita come una “operazione speciale”. Il PCFR premeva da tempo, attraverso la sua rappresentanza parlamentare, affinché si arrivasse al riconoscimento, da parte della Russia, delle due repubbliche autoproclamate del Donbass (Lugansk e Donetsk). Il PCFR è una forza politica reale, insediata nell’opinione pubblica, forse l’unica al di fuori del “partito del potere” che sostiene Putin. Nelle ultime elezioni politiche ha raccolto oltre 10 milioni e mezzo di voti, raccogliendo un suffragio di protesta più ampio della tradizionale area di adesione ideologica. In almeno una regione (l’Oblast di Oryol) ha superato il 30% dei voti.

Sulla natura e il ruolo nel sistema politico del Partito Comunista della Federazione Russa esiste un lungo dibattito tra commentatori e analisti. “Opposizione o stampella di Putin?”, sintetizzava l’interrogativo Jacopo Custodi qualche tempo fa. Il Partito, soprattutto per l’indirizzo ad esso impresso dal suo leader Gennady Zyuganov, che da un lato afferma la volontà di costruire una società socialista (seppure in tempi lunghi), dall’altro aderisce ad una visione conservatrice dei problemi sociali che lo avvicina alla Chiesa ortodossa, particolarmente reazionaria. Sul piano politico questo orientamento, definibile come “social-patriottico”, lo ha portato all’opposizione della politica interna di Putin (ad esempio la recente riforma delle pensioni) mentre ne ha in gran parte condiviso la politica estera. In diverse occasioni è stato vittima sia dei brogli elettorali che della repressione messa in atto dal potere politico, senza però mai rompere nettamente con il Presidente russo (su questo “dilemma” si veda l’articolo di Giovanni Savino).

Una dichiarazione di Zyuganov, a nome del Presidium del Comitato Centrale del Partito, emessa il 25 febbraio scorso affermava: “A seguito di un appello delle direzioni della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, le autorità russe hanno iniziato una operazione politico-militare finalizzata a costringere i provocatori nazisti alla pace. I passi intrapresi hanno come obbiettivo di garantire la pace nel Donbass e di mettere al sicuro la Russia contro le crescenti minacce da parte degli Stati Uniti e la Nato.”

Denunciata la “politica avventuristica” di Washington, il PCFR afferma di ritenere “necessario lo smantellamento dei risultati di molti anni di sforzi per banderizzare l’Ucraina”. Il riferimento è ai movimenti che si richiamano a Stepan Bandera che durante la seconda guerra mondiale guidò un movimento nazionalista anti-sovietico, alleato per diverso tempo con la Germania nazista, e responsabile di crimini di guerra in particolare contro ebrei e polacchi. Secondo Zyuganov queste forze di estrema destra “terrorizzano la popolazione ucraina e spingono le autorità verso un corso politico aggressivo”. Si incolpa Zelensky di aver ceduto alla loro pressione tradendo gli interessi dei suoi concittadini che lo avevano eletto come Presidente della pace in Donbass e dei rapporti di buon vicinato con la Russia.

Il PCFR accetta la narrazione ufficiale sulla necessità di “demilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina come condizione per “garantire una duratura sicurezza per i popoli di Russia, Ucraina e dell’intera Europa”.

In una successiva dichiarazione, di fronte agli sviluppi sul terreno, Zyuganov cerca di puntare l’attenzione sull’azione delle milizie ucraine note per le simpatie ultranazionaliste ed estremiste di destra. Il Presidente del PCFR afferma che “a Mariupol, circondate dalle forze delle Repubbliche di Lugansk e Donetsk, i nazisti dei reggimenti Azov e Aidar stanno impedendo ai civili di lasciare la città. Essi collocano tiratori ai piani alti dei palazzi residenziali per impedire alla gente di lasciare la città. Le unità militari naziste utilizzano queste persone come scudi umani”.

Il leader comunista rimprovera a quelli che chiama i “campioni della pace” di non avere protestato negli otto anni passati per i quotidiani bombardamenti subiti dalle popolazioni del Donbass. E nemmeno avrebbero protestato – sostiene – se fossero scorsi “fiumi di sangue” per mettere fine al “genocidio” dei russi e delle popolazioni che parlano russo.

Dalla lettura di queste dichiarazioni di Zyuganov sembra che l’unico conflitto militare in corso in Ucraina sia quello tra le milizie delle Repubbliche autoproclamate del Donbass e i due battaglioni ucraini organizzati dall’estrema destra. Del tutto irrealistica risulta la lettura di un’Ucraina dominata dai nazisti o, come a volte li si chiama, dai “banderisti”. Né si vede come l’allargamento militare del conflitto possa in alcun modo migliorare la situazione delle popolazioni del Donbass.

Il Fronte di Sinistra, guidato da Sergey Udaltsov, alleato del PCFR, ma su una strategia di opposizione più radicale a Putin e al suo blocco di potere, ha assunto una posizione anch’essa di sostegno all’azione militare, anche se in un contesto più critico per le motivazioni di Putin. In una dichiarazione del 28 febbraio il Consiglio del Fronte afferma che la “responsabilità per il sanguinoso conflitto tra i popoli fratelli di Russia e Ucraina” risiede nei “rappresentanti del capitale mondiale”. La guerra è stata preparata dalle “elites” oligarchiche dei differenti Paesi.

Le “forze patriottiche di sinistra in Russia sono critiche della politica anti-sociale e predatoria perseguita del Presidente Putin e dal suo entourage oligarchico.” Allo stesso tempo, il Fronte si dichiara disgustato dalle attuali autorità di Kyiv, che dal 2014 hanno protetto i nazisti e messo al bando il Partito Comunista. Mentre invece vengono sostenuti gli “eroici residenti” delle Repubbliche autoproclamate che stanno conducendo da molti anni una importante “guerra di liberazione nazionale”.

Per quanto l’azione di Putin sia motivata dalla sua volontà di accrescere il consenso e di “prolungare la sua permanenza al potere”, il Fronte approva sia il riconoscimento delle Repubbliche autoproclamate, sia “l’assistenza russa per liberare il Donbass e Lugansk dagli occupanti nazisti”. Anche in questo caso si omette di far riferimento all’insieme dell’azione militare russa.

A fronte delle sanzioni occidentali il movimento di Udaltsov ritiene che si debba rispondere con una “svolta a sinistra” sul piano socio-economico anche perché non potrà continuare “la vita di lusso delle classi dominanti garantita dal furto ai danni di milioni di lavoratori.”

Per completare il quadro delle forze politiche che hanno un atteggiamento sostanzialmente favorevole all’azione militare si deve richiamare la posizione del Partito Comunista Operaio Russo guidato da Viktor Tyulkin. Come il PCFR, e il Fronte di Sinistra si richiama favorevolmente a Stalin, ma essendo assente dall’azione istituzionale persegue una strategia di mobilitazione dal basso. Non ha più il seguito su cui poteva contare all’inizio degli anni ’90 ed è ridotto ad essere una forza marginale.

Il PCOR si è schierato a favore del riconoscimento delle Repubbliche autoproclamate, ma in relazione all’invasione dell’Ucraina sostiene che non bisogna confondere l’Unione Sovietica con l’attuale Russia governata dalla borghesia. Se l’intervento è giustificato in funzione della difesa delle popolazioni del Donbass data la “natura nazista” delle attuali autorità di Kyiv, l’occupazione dell’Ucraina sarebbe un atto di espansione “imperialista” e in quanto tale inaccettabile.

Tyulkin ha apertamente polemizzato con la tesi sostenute da Putin nel discorso con il quale ha giustificato sul piano storico l’invasione dell’Ucraina, nel quale il Presidente russo attribuiva la responsabilità dei problemi attuali a Lenin e ai bolscevichi. “Volodya Putin”, sostiene il leader del PCOR avrebbe dovuto studiare meglio Lenin anziché affidarsi al “filosofo filo-nazista Ilin” e ai dogmi della chiesa ortodossa. Il richiama al teorico dell’emigrazione “bianca” anti-sovietica, Ivan Ilin è stato oggetto di discussione anche tra gli osservatori occidentali della Russia. Per alcuni Ilin è un pensatore nazional-conservatore ed avrebbe un ruolo importante nel pensiero di Putin. Per altri come Marlene Laruelle non può essere considerato il “guru” filosofico del Presidente russo che fa riferimento principalmente ad altre figure della storia russa, in modo piuttosto eclettico, tra cui il riformatore autoritario Petr Stolypin.

Nella ricostruzione di Tyulkin il richiamo a Ilin serve a collocare l’azione di Putin in un contesto che non ha alcuna continuità con la storia sovietica, al contrario egli si si ricollegherebbe al generale Vlasov, che durante la seconda guerra mondiale guidò le truppe collaborazioniste del nazismo. Il leader del PCOR parla di uno scontro tra “banderisti” (ucraini) e “vlasovisti” (russi). Il PCOR denuncia anche il tradimento dello spirito originario della ribellione popolare nel Donbass, confermato anche dall’uccisione, in circostanze poco chiare, di comandanti di milizie come Mozgovoy, Dremov, Givi, Motorola, Batman ed altri.

Dalla sinistra russa sono emerse voci contro la guerra che, per il momento, restano minoritarie anche perché devono fronteggiare una crescente repressione.

Diversi membri di partiti di sinistra e intellettuali russi hanno pubblicato una dichiarazione comune a nome di una “tavola rotonda contro la guerra di forze russe di sinistra”. La condanna “della decisione assunta dal presidente russo V. Putin di invadere l’Ucraina”, è netta ed è motivata dal fatto che l’azione militare condurrà inevitabilmente alla morte di migliaia di persone da ambo i lati e ad un “aggravamento della situazione economica dei lavoratori di entrambi i paesi”.

L’invasione, per i firmatari, è solo “una soddisfazione per insane ambizioni di politica estera per uno stretto circolo di persone alla direzione del paese, così come un modo per distrarre l’attenzione dai fallimenti del governo russo in politica interna”.  Per questo esigono “dai dirigenti russi che cessi immediatamente l’aggressione contro il popolo fratello ucraino”.

Fra i firmatari figurano, il noto sociologo Boris Kagarlitsky, Evgeny Stupin, deputato alla duma di Mosca per il Partito Comunista della Federazione Russa, Kirill Medevdev del Movimento Socialista Russo, Nikita Arkin del Movimento Socialista di Sinistra e V. Aramchuk del Partito Rivoluzionario Operaio (un piccolo raggruppamento trotskista), Alexey Sakhnin, ex militante del Fronte di Sinistra in dissenso con questo partito.

Oltre Stupin anche altri esponenti e militanti del PCFR hanno assunto una posizione di dissenso con la guerra. Tra questi il deputato Mikhail Matveev che pur avendo votato a favore del riconoscimento di Donetsk e Lugansk ha dichiarato su twitter che il suo voto era “per la pace, perché la Russia avesse uno scudo, perché il Dombass non fosse non bombardato, e non perché fosse bombardata Kiev”.

Sul social russo Vkontakte, equivalente locale di Facebook, è stato diffuso un comunicato firmato da 12 deputati del PCFR (a vari livelli di rappresentanza) nonché militanti del partito e dell’organizzazione giovanile nel quale si sostiene che il conflitto porta “distruzione, disastro economico e morte per i popoli di Russia, Ucraina e delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk”, seminando “discordia e odio reciproco tra i lavoratori di Russia e Ucraina.” Aggiungono i firmatari: “siamo contro il fascismo tanto in Ucraina quanto in Russia. E, pertanto, non diamo credito alla retorica secondo la quale il regime rabbiosamente anticomunista e antidemocratico di Putin possa liberare il popolo dell’Ucraina dalle bande naziste.” L’appello chiede al PCFR di opporsi alla guerra.

Altre voci contro la guerra si sono levate da piccoli gruppi di vario orientamento come la piattaforma “Sinistra Alternativa”, il “Blocco di Sinistra” e “Azione autonoma” (di orientamento libertario. Intanto si sono registrate anche le prime condanne sulla base delle nuove norme repressive approvate dal parlamento russo.

Franco Ferrari

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LE LANCETTE DELL’APOCALISSE

UN INTERESSANTE CONTRIBUTO DI GIANCARLO MICHELI

Nel 1947 un gruppo di scienziati che avevano collaborato al Progetto Manhattan ideò il Bullettin of the Atomic Scientists, su ciascuno dei cui numeri, pubblicati a partire da allora con cadenza bimestrale, comparve il cosiddetto Doomsday Clock (Orologio dell’Apocalisse). Nel 2020, per la prima volta, le lancette che indicano la misura del rischio stimato d’un conflitto nucleare, alle cui conseguenze la Storia e la fantasia umane non hanno eventi altrettanto tragici da mettere sulla ribalta, fu spostato a 1 minuto e 40 secondi dalla mezzanotte, la quale segna il massimo rischio percepibile (furono poste a 2 minuti solo nel 1953, quando Stati uniti e Unione sovietica sperimentarono, a distanza di sei mesi, i primi esemplari della cosiddetta bomba all’idrogeno, e nel 1984, durante la presidenza, in America, del grande attore Ronald Reagan, oscillando poi al di sotto d’un massimo di  17 minuti, raggiunto nel 1991, all’avvento al potere in Russia del celebre ubriacone Eltsin).
L’unica soluzione a questo stillicidio del terrore, cui gli adulti condannano, in virtù del patto ipocrita della loro falsa coscienza, i bambini che oggi vivono in Ucraina, a Gaza, in Siria e ovunque nel mondo grande e terribile, nonché le generazioni future, d’ora in ora più eventuali, l’unica soluzione è far nascere, oggi, un movimento internazionalista che rivendichi, con tutti i mezzi di cui l’immaginazione dei popoli ancora dispone, lo smantellamento degli arsenali militari e l’impiego delle smisurate risorse così liberate per rimediare agli effetti dei mutamenti climatici, alle catastrofi provocate da tutti coloro che governarono il mondo durante tale incubo settuagenario.

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LA GUERRA IN SEI PUNTI

di Barbara Spinelli

su il Fatto Quotidiano  del 26-02-2022

Paragonando l’invasione russa dell’Ucraina all ’assalto dell’11 settembre a New York, Enrico Letta ha confermato ieri in Parlamento che le parole gridate con rabbia non denotano per forza giudizio equilibrato sulle motivazioni e la genealogia dei conflitti nel mondo.

Perfino l’11 settembre aveva una sua genealogia, sia pure confusa, ma lo stesso non si può certo dire dell’aggressione russa e dell’assedio di Kiev. Qui le motivazioni dell’aggressore, anche se smisurate, sono non solo ben ricostruibili ma da tempo potevano esser previste e anche sventate. Le ha comunque previste Pechino, che ieri sembra aver caldeggiato una trattativa Putin-Zelenski, ben sapendo che l’esito sarà la neutralità ucraina chiesta per decenni da Mosca. Il disastro poteva

forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria.

È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’Est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda. L’allargamento a Est della Nato era divenuto il punto dolente per il Cremlino e lo era tanto più dopo la guerra in Jugoslavia: “Penso sia chiaro – così Putin – che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza o con la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa quest’espansione? E cos’è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda. Ma io voglio permettermi di ricordare a questo pubblico quello che fu detto. Gradirei citare il discorso del Segretario generale Nato, signor Wörner, a Bruxelles il 17 maggio 1990. Allora lui diceva: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Urss una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie? ”.

Per capire meglio la sciagura ucraina, proviamo dunque a elencare alcuni punti difficilmente oppugnabili.

Primo: né Washington né la Nato né l’Europa sono minimamente intenzionate a rispondere alla guerra di Mosca con una guerra simmetrica. Biden lo ha detto sin da dicembre, poche settimane dopo lo schieramento di truppe russe ai confini ucraini. Ora minaccia solo sanzioni, che già sono state impiegate e sono state un falso deterrente (“Quasi mai le sanzioni sono sufficienti”, secondo Prodi). D’altronde su di esse ci sono dissensi nella Nato.

Alcuni Paesi dipendenti dal gas russo (fra il 40 e il 45%), come Germania e Italia, celano a malapena

dubbi e paure. Non c’è accordo sul blocco delle transazioni finanziarie tramite Swift. Chi auspica sanzioni “più dure”non sa bene quel che dice.

Chi ripete un po’ disperatamente che l’invasione è “inaccettabile” di fatto l’ha già accettata. Secondo punto: l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca.

Nel ’91 Bush sr. era addirittura contrario all’indipendenza ucraina.

L’impegno occidentale non fu scritto, ma i documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive ) confermano che i leader occidentali– da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner Segretario generale Nato – furono espliciti con Gorbaciov, nel 1990: l’Alleanza non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice”(assicurò il Segretario di Stato Baker). Nel ’93 Clinton promise a Eltsin una “Partnership per la Pace” al posto dell’e s p an s i on e Nato: altra parola data e non mantenuta. Terzo punto: la promessa finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia (a quel tempo la Russia era in ginocchio economicamente e militarmente, ma possedeva pur sempre l’atomica). Nel vertice Nato del 2008 a Bucarest, gli Alleati dichiararono che Georgia e Ucraina sarebbero in futuro entrate nella Nato. Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. Se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba). Quarto punto: sia gli Usa che gli europei sono stati del tutto incapaci di costruire un ordine internazionale diverso dal precedente, specie da quando alle superpotenze s’è aggiunta la Cina e si è acutizzata la questione Taiwan. Preconizzavano politiche multilaterali, ma disdegnavano l’e s s e n z i ale, cioè un nuovo ordine multipolare. Il dopo Guerra fredda fu vissuto come una vittoria Usa e non come una comune vittoria dell’Ovest e dell’Est.

La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui. Il quinto punto concerne l’obbligo di rispetto dei confini internazionali, fondamentale nel secondo dopoguerra. Ma Putin non è stato il primo a violarlo.

L’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo lo violò per primo nel ’99 (chi scrive approvò con poca lungimiranza l’intervento).

Il ritiro dall’Afghanistan ha messo fine alla hybris e la nemesi era presagibile. Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’Ue – il maltrattamento delle minoranze russe.

Non abbiamo difeso e non difendiamo i diritti, come pretendiamo? Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica. Riarmando il fronte Est dell ’Ue foraggiamo le industrie degli armamenti ed evitiamo alla Nato la morte celebrale che alcuni hanno giustamente diagnosticato. Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere.

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Come sempre, la guerra che non vuole nessuno

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Di Giulio Cavalli -Dal sito di LEFT

Alla fine ci si è ridotti ad attaccarsi alla telefonata tra Usa e Russia, perché in fondo passano gli anni ma le abitudini peggiori rimangono intatte. Se da quella telefonata tra Biden e Putin ci si aspettava uno sviluppo qualsiasi, anche minimamente positivo, si può ufficializzare la delusione: gli Usa che avevano ripetuto di non voler entrare nel conflitto (fingendo di non sapere che l’Ucraina sia nel bel mezzo di un percorso di annessione alla Nato) ora minaccia «reazioni» e «una risposta decisa». Non male per rasserenare gli animi.

Da parte sua Putin fa politica internazionale come l’ha sempre fatta, incapace di esercitare pressione senza sfoderare armi e militari. E nonostante il presidente russo abbia interloquito con Macron (che ha intensificato i suoi contatti anche con Biden) tutti i segnali indicano un risultato scontato. Dagli Usa indicano anche una data: la commissione parlamentare russa che gestisce gli affari degli Stati indipendenti discuterà martedì l’ipotesi di riconoscere ufficialmente le due repubbliche ribelli di Donetsk e di Lugansk. In caso di parere positivo, l’Aula della Duma sarebbe chiamata a votare il giorno seguente, e quindi mercoledì. Mercoledì potrebbe essere il giorno, quindi.

La guerra sarebbe un grosso problema anche per l’Ucraina che subirebbe una brusca frenata nel suo percorso di avvicinamento alla Nato. Il ministro Di Maio in audizione alle Camere ha ricordato l’articolo 10 del Patto atlantico, secondo il quale l’allargamento deve «accrescere la sicurezza collettiva». Tutto vero, per carità, ma sarebbe curioso chiedere se l’allargamento della Nato a Est abbia o meno contribuito proprio a destabilizzare, piuttosto che accrescere la sicurezza. Poi si potrebbe ricordare a tutti gli sfegatati atlantisti di queste ore, perché, se «ogni Stato ha il diritto di scegliersi l’alleato che vuole» (come si sente dire in giro per difendere il governo di Kiev), poi alla fine gli stessi Usa (e la Nato) abbiano usato i jihadisti contro l’Urss negli anni Ottanta, perché gli Usa (e la Nato) siano intervenuti in Libia nel 2011 con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, perché si siano inventati una guerra in Iraq nel 2003 o, per finire, cosa ne dicono dell’ordine che hanno ristabilito in Afghanistan.

Di certo gli ucraini si sono affidati per il riarmo a Erdogan (un altro che non si capisce bene come contribuisca all’allargamento della sicurezza) e si è concesso a Putin di ammassare uomini e armi al confine in tutta tranquillità. Gli attori in scena sono tutt’altro che affidabili. Come sempre accade per le guerre tutti si occupano di trovare una giustificazione per una guerra che tutti fingono di non volere e intanto si apparecchia.

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Mattadraghismo

di Giovanni Russo Spena –

La settimana parlamentare quirinalizia induce ad alcune riflessioni che hanno valenza strategica per l’incidenza sugli assetti istituzionali e sociali italiani. La rielezione del presidente Mattarella ha generato un ampio sospiro si sollievo da parte di chi fremeva di fronte ad un mediocre spettacolo di ingovernabilità. Analizziamo, però, alcuni rilevanti problemi aperti. Partiamo, innanzitutto, dalla lettera dell’articolo 85 della Costituzione: ” il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni”. La Costituzione non prevede, quindi, anche se non esclude, un secondo mandato. Anche il costituzionalista Mattarella ha sempre sostenuto questa tesi. Aveva, infatti, in una prima fase ripetutamente rifiutato la proposta di rielezione; accettata, poi, per una superiore “ragion di Stato”. I costituzionalisti si sono divisi sulla conformità alla Costituzione del secondo mandato. Al contrario di Pallante e, parzialmente, di Azzariti, il presidente del Comitato Difesa Costituzione Massimo Villone scrive testualmente:” la Costituzione non pone alcun divieto e sarebbe sbagliato pensare che la mancata previsione sia una disattenzione dei costituenti. Fu una scelta voluta. Lo dimostra la inclusione nel testo originario dell’articolo 88 del semestre bianco, che aveva senso solo assumendo la rielezione come possibile. E non c’è uno “spirito” dei costituenti che indichi il contrario”. Io ritengo, comunque, che, nell’impianto del sistema costituzionale italiano, quattordici anni di mandato siano eccessivi, sono un inedito istituzionale. Dobbiamo considerare la rielezione di Mattarella una eccezione, quindi. Corriamo il rischio che, dopo l’episodio Napolitano, l’eccezione diventi infausta regola? Credo che occorra vigilanza democratica affinché questo no avvenga. Lo stesso Mattarella aveva parlato di un ulteriore settennato come di una “sgrammaticatura costituzionale”; il presidente della Repubblica non deve diventare un oligarca democratico. Un aspetto di queste elezioni da ricordare è il ruolo più attivo, rispetto al recente passato , assunto dai singoli parlamentari; spesso in contrasto con i dirigenti dei propri partiti. Un positivo sussulto di dignità. Anche se parziale e fievole. Pensiamo al fatto che sono state sconfitte le due autocandidature, che hanno per giorni bloccato il Parlamento: quella grottesca ed improbabile di Berlusconi; e quella di Draghi, che ho sempre contrastato per motivi politici ma anche profondamente costituzionali. L’elezione di Draghi ci avrebbe fatto scivolare, in maniera confusa e surrettizia, verso una forma di quinta repubblica gollista. Draghi pretendeva, a mio avviso, che le regole costituzionali si adattassero alle sue ambizioni presidenziali. Se fosse stato eletto presidente della Repubblica avrebbe preteso che un altro “tecnico”(di fatto da lui nominato) diventasse presidente del Consiglio. Un governo tecnocratico/oligarchico che avrebbe distrutto la dialettica politica e avrebbe reso la politica ancella dei poteri economici e finanziari. Draghi avrebbe realizzato un iperpresidenzialismo di fatto senza regole, controlli, bilanciamenti. Vi è, poi, un dato fondamentale. L’articolo 87 della Costituzione recita:” Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Draghi sarebbe stato, invece, capo di una coalizione, cioè di una maggioranza; un presidente di parte. Aggiungo una osservazione che sembra collaterale ma che, invece, è centrale in una società mediatica e tecnologica in cui la velocità dell’informazione diventa formazione di senso comune e di immaginario collettivo. Ho visto in azione una perfida campagna mediatica, di stampo tecnocratico/liberista, tesa a screditare , con strumentale disprezzo, l’istituto stesso della democrazia parlamentare. Utilizzando strumentalmente la reale debolezza del sistema politico ( per lo meno trentennale, generato spesso dal sistema elettorale maggioritario) e la profonda crisi della rappresentanza politica, la stampa e i mass media, quasi unanimi, hanno presentato come un vile mercato la ricerca parlamentare del nuovo Presidente della Repubblica. Si è finto, da parte di mass media liberisti, di non comprendere che la democrazia è anche lentezza, è arricchita da confronti, scontri, mediazioni. E’ la legalità costituzionale italiana. Dopo quante elezioni, chiedo provocatoriamente, è stato eletto Pertini, un presidente amatissimo dalle Italiane e Italiani? Questa campagna mediatica, a mio avviso, tende al fondo a convincere l’opinione pubblica, gli umori profondi della nazione, che è urgente un mutamento radicale della Costituzione. A partire dall’introduzione dell’elezione diretta popolare del Presidente della Repubblica. Sarebbe uno stravolgimento anche di tutta la prima parte della Costituzione, cioè gli articoli che determinano i fondamenti della nostra formazione sociale, dei valori nati dalla Resistenza. A nessuno, infatti, sfugge quali e quanti sarebbero i poteri, anche esecutivi, di un presidente eletto dal popolo. Non agito uno spettro vacuo o solo eventuale. Già le destre, compatte(ma anche settori del centrosinistra e, soprattutto, settori confindustriali), hanno approntato e presentato proposte di legge costituzionali. La Meloni e le destre fonderanno su questo progetto la propria campagna elettorale. Non mi pare che, nel centrosinistra, vi siano antidoti sufficienti, convinzioni forti per opporsi alle destre. La settimana delle elezioni quirinalizie ha evidenziato la profonda crisi del sistema politico. Dovuta certamente all’egemonia esercitata dall’economia, dai processi di accumulazione, dalla formazione delle catene del valore all’interno delle tragiche convulsioni della globalizzazione liberista, che fanno emergere conflitti molto aspri intorno alla competitività: tra aziende, tra macroterritori, tra Stati. Questo contesto, come protesi istituzionale, ha creato trenta anni di bipolarismo e di sistema maggioritario che hanno dissolto la rappresentanza politica. Non a caso sono entrate in crisi coalizioni formate da forze eterogenee e tra loro competitive, che si sono messe insieme solo per governare o per ragioni di potere. Coalizioni costruitesi solo per accaparrare voti. Questa settimana è stata una lezione severa per i partiti. Occorre, ora, un profondo cambiamento di rotta. Credo sia essenziale discutere molto presto, in Parlamento, una legge proporzionale; una legge che faccia eleggere i parlamentari dalle cittadine e dai cittadini. Prima delle prossime elezioni ; soprattutto dopo la pessima riduzione lineare del numero dei parlamentari. Solo la proporzionale è, infatti, lo “specchio del paese”, come la chiamava Togliatti. Senza premi di maggioranza, leggi “truffa”, voti “utili”. Dobbiamo ritornare al principio fondativo “una testa, un voto”. Solo la democrazia proporzionale permetterà ai partiti di affrontare la propria crisi. Sollevo un ultimo punto di prospettiva: bisogna approvare, finalmente, la legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione (” tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale “. E occorrerà rivedere la normativa sul finanziamento pubblico dei partiti, distrutto goffamente dal populismo reazionario che ha accentuato gli aspetti predatori e privatistici di partiti di cartapesta. La democrazia rappresentativa può essere rilanciata solo da una dialettica forte con la democrazia diretta , con l’autogoverno, con l’autorappresentazione popolare. La rielezione di Mattarella, in definitiva, non mi sembra porterà stabilità. Rischia, invece, di portare conservazione. Credo che, per paradosso, vivremo mesi di grande instabilità, scomposizioni e ricomposizioni partitiche. Anche, forse, scissioni di partiti. A me non dispiace l’instabilità. A patto che cresca , nella società, un movimento di massa che dia vita anche ad una nuova forza di sinistra anticapitalista, unitaria e plurale.

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