FACCIAMO PACE
Paolo Ferrero: l’Ucraina come l’Afganistan
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L’Anpi ha completamente ragione: la Resistenza italiana non si può paragonare a quella ucraina
di Paolo Ferrero – Il fatto quotidiano
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In questi giorni si susseguono vergognosi attacchi all’Anpi ed al suo Presidente perché ha osato dire che era contrario all’invio di armi in Ucraina e perché non riteneva che quella Ucraina si potesse paragonare con la resistenza italiana.
Penso che l’Anpi abbia completamente ragione per tre ragioni di fondo:
1) La Resistenza italiana si è caratterizzata per l’estrema attenzione alla salvaguardia delle vite dei cittadini italiani. Non ho memoria di azioni partigiane che partissero da un villaggio identificabile. Le bande partigiane cercavano di agire distanti dai villaggi e di non lasciare tracce di contatti con la popolazione locale per evitare di esporla a rappresaglie. Si può dire la stessa cosa delle milizie ucraine che combattono l’esercito russo? Non mi pare. Le immagini dei carri armati piazzati in mezzo ai palazzi, delle contraeree messe sui tetti delle case di civile abitazioni e le testimonianze di miliziani che prendevano posizione all’interno dei palazzi residenziali per sparare sulle truppe russe le abbiamo viste tutti e non sono contestate.
Già questo comportamento sul campo parla di un rapporto completamente diverso tra chi combatte e la popolazione inerme. Vi sono poi episodi che riguardano in particolare i nazisti del battaglione Azov che nel territorio del Donbass segnalano una situazione ancor più grave, in cui la popolazione civile viene utilizzata nei fatti come protezione delle milizie. Mi dispiace ma non è l’atteggiamento che la Resistenza aveva con la propria gente. Nella lotta partigiana la tutela della popolazione veniva prima dell’efficacia militare, per una parte delle milizie ucraine è vero il contrario.
2) La resistenza italiana si è caratterizzata per una lotta che puntava alla fine del conflitto, alla pace. Il tutto nella consapevolezza che più la guerra proseguiva e più la popolazione avrebbe avuto a soffrirne. Non è un caso che quando l’esercito tedesco ha cominciato a ritirarsi i comandi partigiani hanno cercato in tutti i modi un rapporto diplomatico in modo da garantire l’esodo pacifico delle truppe occupanti, senza ulteriori danni per la popolazione. La lotta partigiana aveva un obiettivo chiaro e cioè la fine della guerra, la pace. Possiamo dire la stessa cosa delle milizie in Ucraina? Svolgono lo stesso ruolo? A me pare di no.
La scelta degli Usa e della Nato di trasformare l’Ucraina in un nuovo Afghanistan, è finalizzata a far durare la guerra il più a lungo possibile, non a farla finire. Non è casuale che le trattative per ricercare la pace ristagnino. E’ del tutto evidente che la fornitura di armi “letali ma non troppo” da parte della Nato disegna per le milizie ucraine un ruolo di forza armata utile per tenere impegnato l’esercito russo, non certo per finire la guerra. Che il Presidente Zelensky e le milizie ucraine accettino volontariamente di trasformare l’Ucraina in un campo di battaglia a durata indefinita, non cambia di una virgola il problema: in Ucraina non è in corso una lotta per far finire la guerra e permettere finalmente al popolo ucraino – tutto il popolo ucraino – di vivere in pace. In Ucraina è in corso una assurda guerra di logoramento fatta per conto terzi: una bella differenza con la Resistenza italiana.
3) La resistenza italiana, nella sua plurale composizione politica, culturale e sociale, aveva ideali di giustizia e libertà, di democrazia e tolleranza: la Costituzione italiana ne è il suggello imperituro. E’ la stessa cosa in Ucraina? Non mi pare. Non mi riferisco solo ai battaglioni nazisti che combattono in nome del criminale collaborazionista Stepan Bandera. Mi riferisco al nazionalismo antidemocratico che permea l’azione del governo ucraino che nel bel mezzo della guerra non ha trovato di meglio che mettere fuori legge vari partiti di opposizione e che continua a considerare una parte russa del popolo ucraino come una sorta di nemico interno.
Quella in corso è ucraina è una guerra degli ucraini contro l’esercito russo invasore e non metto certo in discussione la legittimità degli ucraini di combattere questa guerra. Ma non venitemi a dire che si tratta di Resistenza per il significato che questa parola ha assunto nella lotta di liberazione dal nazifascismo in Italia. Non lo è così come non è vero che la fornitura di armi “letali ma non troppo” riduce le sofferenze del popolo ucraino: è vero il contrario! Più la guerra va avanti è più è destinata a produrre disastri e sofferenze. In primo luogo al popolo ucraino che è la prima vittima di questa situazione.
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La propaganda di Draghi sul gas ricorda il burro o i cannoni di Mussolini
intervista di Antonello Sette a Paolo Ferrero
Ferrero, la guerra sta diventando un grande spettacolo horror. Dirette, immagini macabre, lacrime e sangue, chi più ne ha più ne metta. Non c’è il rischio di un’assuefazione anche alle atrocità della guerra?
C’è questo rischio, ma soprattutto c’è una costruzione mediatica continuativa della normalità della guerra e della necessità di proseguirla. Questa costruzione la stanno facendo coloro che dirigono i giornali e le televisioni, il nostro Governo, l’Unione Europea, la Nato. A un mese e mezzo dall’inizio della guerra, l’idea della trattativa e della ricerca di un compromesso è stata cancellata, distrutta, sterminata, in primo luogo dalla Nato e, subito dopo, dall’Unione Europa e anche da Zelensky, che continua a chiedere armi, quando la realizzazione di quell’idea sarebbe, invece, l’unica cosa sensata. Siamo, a tutti gli effetti, dentro una propaganda di guerra, che cerca di convincere l’opinione pubblica della cattiveria dei nemici, solo per proseguire la guerra. Questi signori non vogliono fare l’unica cosa giusta, che è ricercare la pace, ma proseguire la guerra per vincerla, il che equivarrebbe alla produzione del disastro.
Chi pagherà le conseguenze della guerra, al di là, naturalmente di quelle estreme dei civili e dei bambini che muoiono, senza neppure avere il tempo di capire?
I popoli. Il popolo ucraino direttamente con la morte. E, sul piano economico e sociale gli altri popoli, a partire da quelli europei, chi rimarrà senza grano, senza fertilizzanti e senza generi di prima necessità. Saranno i popoli a pagare e saranno, come sempre, i potenti ad arricchirsi vendendo armi.
Il premier Mario Draghi ha detto che non si dovranno tenere accesi per tutto il giorno i condizionatori durante l’estate, lasciando peraltro aperta la questione di uno spegnimento anche di quelli in uso a Palazzo Chigi…
Lui sicuramente li userà. Mi lasci dire che sembra Mussolini quando diceva “volete il burro o i cannoni?”. E’ la tipica propaganda di guerra di gente. che a combattere non ci va mai e che i danni li fa pagare agli altri.
Forza Italia ha chiesto a Putin di colpire i responsabili della strage di Bucha, non riconoscendo evidentemente la competenza naturale della Corte Internazionale dell’Aja per i crimini di guerra. Le sembra una proposta sensata?
Mi sembra una proposta ridicola.
dal sito Spraynews
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20 marzo, la protesta di Sigonella: “Via le basi Usa e Nato dalla nostra terra”
20.03.22 – Redazione Italia sito Pressenza
Quanti saranno stati oggi alla manifestazione di Sigonella, dopo quella che si era già tenuta la settimana scorsa a Niscemi per dire NO alle Basi americane che rendono la Sicilia ostaggio di tutte le guerre attualmente guerreggiate nel pianeta? Non tantissimi, qualche centinaio, ma con tutte le possibili bandiere dei movimenti, associazioni e sindacati di base che sventolavano la loro rabbiosa opposizione nel vento fortissimo. E dunque NO al MUOS, NO alla NATO e alle basi americane che ci vedono di fatto in guerra anche nel resto d’Italia. NO alla devastazione dei territori. NO al TAV, che sempre più chiaramente servirà la filiera dell’industria bellica che già vede il Piemonte tra le eccellenze nel mondo. Un crescendo di slogan urlati quasi senza sosta, al di là del cancello della base americana lungo la Strada Statale Catania Gela e superando a un certo punto anche i limiti imposti dalla Questura.
“L’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente – fa sapere il coordinamento siciliano dei NO MUOS – è speculare all’aggressione della Russia che senz’altro condanniamo. Ribadiamo ancora una volta che è ora di costruire un mondo in cui i popoli possano vivere in pace e autodeterminarsi in libertà. Condanniamo la scelta scellerata di aumentare a 26 miliardi la spesa militare per l’anno in corso, a discapito della spesa per tutelare realmente la salute, per un’istruzione degna di questo nome (e quindi non militarizzata, come invece vorrebbero alcune proposte di Alternanza Scuola Lavoro) e per garantire il lavoro a tutte e a tutti. Questa ennesima guerra, che è solo più pericolosa delle tante in corso, dimostra che i governi non hanno difficoltà a stanziare miliardi per gli armamenti e nessun interesse a tutelare i ceti popolari da rincari e povertà”.
No alle guerre imperialiste
Concludono gli attivisti: “Il governo italiano, con le sue scelte scellerate contro i popoli, non sta lavorando per la pace, ma per entrare in guerra, preannunciata negli ultimi anni dagli schieramenti di missili e armi da parte della NATO ai confini della Russia. Il linguaggio utilizzato dai media, tranne alcune eccezioni, è già retorica di guerra. Il movimento No MUOS e tutte le realtà resistenti presenti dicono NO a Sigonella e alle basi USA, NO alla NATO, No al MUOS e no alle guerre imperialiste”.
Più di un intervento ha ribadito il tema dell’indipendenza dei territori, che in Sicilia è molto sentito anche in relazione allo statuto di Regione autonoma, ma non è riuscito a impedire il suo scellerato utilizzo come vero e proprio avamposto anche della guerra attualmente in corso tra Russia e Ucraina. “Da Sigonella decollano quotidianamente droni della Marina militare statunitense e della NATO, che sorvolano tutto l’Est Europa, raggiungono l’Ucraina, volano sul Mar Nero e costeggiano la Crimea” ha fatto notare il pacifista Antonio Mazzeo durante un convegno tenutosi venerdì scorso a Torino.
“Sigonella è in prima linea da tantissimo tempo e Niscemi coincide come è noto con la postazione in cui opera il MUOS (Mobile User Objective System, ndr) sistema di telecomunicazioni satellitari delle forze armate statunitensi che ha da tempo un ruolo determinante in tutti gli scenari di guerra globali a livello mondiale…” il timore della popolazione è insomma più che legittimo.
“Oggi più che mai i popoli della terra si trovano davanti a due opzioni: o lottare per la propria indipendenza dagli Stati e dalle forme economiche che li sottendono, o precipitare nell’insieme di catastrofi in cui queste dannate creature in epoca capitalista stanno sprofondando il mondo” esprime con chiarezza un portavoce del collettivo Antudo. “L’unica battaglia da fare è quella contro la guerra”.
Foto di Annarita Bertolotti
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Pacifisti: siamo la maggioranza e dobbiamo fare opinione pubblica
La maggioranza delle persone è contro ogni avventura militare dell’Italia ed è anche contro l’invio di armi all’Ucraina. Occorre sfruttare questo vantaggio strategico per costituire ovunque comitati per la pace permanenti che diano voce all’Italia che non si mette l’elmetto.
di Alessandro Marescotti sito Peacelink
La cosa drammatica di ogni guerra è che chi la vuole ha pieno accesso ai mass media e fa opinione pubblica amplificando posizioni che spesso sono di minoranza.
Chi invece non la vuole non ha pieno accesso ai mass media e non riesce a fare opinione pubblica come vorrebbe, nonostante abbia con sé la maggioranza dell’opinione pubblica.
A questo punto è bene avere chiare due cose:
1) noi pacifisti siamo la maggioranza e dobbiamo fare opinione pubblica;
2) lo dobbiamo fare perché avevamo ragione a dire no all’escalation militare; le scelte di Zelensky e della Commissione Europea si stanno dimostrando controproducenti perché sono scelte di escalation militare prive di reali prospettive di successo e che pertanto avvantaggiano Putin senza aiutare in alcun modo il popolo ucraino.
Bisogna essere imbottiti di molta propaganda per dire che la Russia “sta perdendo la guerra”. Una cosa è dire che la Russia non sta avanzando come previsto, subendo gravi perdite, altra è negare che stia avanzando. Chi legge le riviste militari, chi consulta i siti specializzati sa che passo dopo passo, giorno dopo giorno, l’apparato militare dell’Ucraina viene demolito da una pioggia di missili che lo stanno indebolendo sempre di più. Non solo: le notizie sulla vittoriosa resistenza delle truppe ucraine si stanno rivelando sovradimensionate. Ogni giorno i satelliti russi fanno la mappa degli obiettivi da distruggere e sistematicamente li colpiscono mentre le truppe ucraine assitono impotenti alla demolizione progessiva di tutta l’infrastruttura militare, così come accadde nel Kosovo quando le truppe serbe subirono giorno dopo giorno la distruzione di tutte le basi militari. Con la differenza che la Russia per di più avanza sul campo con i mezzi blindati dopo aver demolito tutte le difese. La verità è che oggi la Russia sta prendendo il controllo militare della città strategica di Mariupol, sul Mar d’Azov, collegato al Mar Nero. Risultato? I russi congiungeranno con un corridoio la Crimea al Donbass, fornendo a quest’ultimo l’affaccio al mare. Zelensky, proseguendo la guerra a oltranza, si è dato la zappa sui piedi. Ha illuso se stesso, il suo popolo e la comunità internazionale di essere un condottiero e un eroe. Ma in realtà sta ottenendo i risultati opposti a quelli che promette.“Ho visto l’onda d’urto della bomba trasformare in materia molle pietre e mattoni agitandoli come una bandiera”
A questo punto a che cosa sono serviti i proclami di Zelensky sulla vittoria quando stava in realtà stava perdendo? Adesso tratterà da posizioni di forza o di debolezza?
Fermo restando la condanna di Putin per una guerra che viola tutti i principi del diritto internazionale, va aggiunto che a quella detestabile guerra Zelensky ha risposto in modo controproducente, dandosi obiettivi puramente retorici, illudendo senza alcun vantaggio, perché ha allungato le trattative di pace che invece dovevano essere condotte con ben altro spirito, sapendo che ogni giorno perso era un giorno di vantaggio per Putin, e non viceversa. Ieri Putin si è esibito in un bagno di folla, in uno stadio stracolmo, mentre Zelensky è chiuso nella trappola della sua strategia controproducente ed autolesionista. Ha portato l’Ucraina in un cul de sac da cui tenta di uscire con la proposta alla Nato di un’intervento militare (la no fly zone) e ottenendo in cambio un garbato rifiuto. La Nato ha detto “no” a Zelenski. A questo punto Zelensky sta cercando di accusare la Nato di non essere dalla sua parte e di mobilitare l’opinione pubblica internazionale, nazione per nazione, persuadendola che un allargamento del conflitto non è poi una catastrofe in quanto la catastrofe c’è già. Zelensky sta puntando sulle nazioni con i governi più nazionalisti, come la Polonia, per ottenere un allargamento della guerra attraverso interventi militari “umanitari” di sconfinamento nel territorio ucraino. Una follia. Zelensky vuole trascinare una Nato riluttante a fare ciò che non vorrebbe. Le sta tentando tutte, con una tenacia degna della peggiore irresponsabilità, improntata alla strategia del “tanto peggio tanto meglio”.
Zelensky punta a cambiare la linea della Nato e a farla deragliare verso un intervento militare, e siccome sa di aver già ottenuto un garbato “no”, punta a conquistare il sostegno popolare dell’opinione pubblica europea e americana. Questo pericoloso tentativo va contrastato.
A questo punto, sembrerà un paradosso, ma la strategia dei pacifisti dovrebbe essere quella di fare di tutto perché si consolidi la posizione di non intervento della Nato, isolando Zelensky e rendendo chiaro che Zelensky sta operando contro gli interessi del suo stesso popolo, che solo con un’ubriacatura nazionalista può pensare di stare meglio di prima rifiutando il negoziato su Donbass e Crimea. Zelensky potrebbe puntare sull’autodeterminazione di quelle regioni, con referendum monitorati da osservatori internazionali. E invece no. Zelensky va a zig zag con negoziati in cui un giorno dice una cosa e il giorno dopo dice la cosa opposta. Chi lo acclama come un eroe, oggi, dopo la caduta della città strategica di Mariupol, dovrebbe rendersi conto è una persona eroica solo nel darsi la zappa sui piedi, ottenendo l’esatto opposto di ciò che vorrebbe conseguire.
Il nazionalismo di Zelensky è talmente controproducente che lui stesso cerca di compensarne gli effetti chiamando sempre più in causa, e pericolosamente, la Nato. La tira costantemente per la giacchetta.
E la Nato? Lo ha accontentato con azioni più di facciata che di sostanza.
Gli stessi aiuti militari all’Ucraina – chiesti dalla Nato deliberati con tanta retorica dai parlamenti europei – alla fine non giungeranno a destinazione integri perché verranno neutralizzati dai missili russi. E quindi sono un’arma spuntata. Ma sono anche un’arma pericolosa perché quelle armi, per essere consegnate, hanno bisogno che qualcuno le consegni. La Nato potrebbe consegnarle in prima persona, ed è un passo che porterebbe alla terza guerra mondiale. Oppure per essere consegnate vanno trasportate dai mercenari (i contractors) che tentano di entrare dai confini occidentali dell’Ucraina. Nelle prossime settimane i contractors alla frontiera saranno sempre più nel mirino – vero e proprio – della Russia. Attendiamoci di vederli presentati come “i nuovi partigiani”. Già sulla tv pubblica sono stati intervistati e presentati con la retorica reganiana dei freendom fighters.
Pensare che questa possa essere la prospettiva della guerra, con una destabilizzazione militare che diventa destabilizzazione anche economica alle porte dell’Europa significa – ancora una volta – avere l’intelligenza dello stupido. Rileggiamoci la terza legge della stupidità del prof. Carlo Cipolla:
“Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita.”
Forse questa conclusione non piacerà a qualcuno, ma andrebbe ricordato che Lenin, pur di terminare una lunga e sanguinosa guerra, nel 1917 firmò accordi di pace che penalizzavano fortemente l’Unione Sovietica da un punto di vista territoriale. Fu molto criticato anche all’interno del suo partito, il partito bolscevico. Ma antepose la pace ad ogni considerazione di carattere territoriale. Lenin non era un pacifista, non era una persona arrendevole. Ma, al tempo stesso, non era un cretino. E decise di firmare un accordo di pace, che non piaceva perché comportava la perdita di un terzo del territorio della Russia, pur di terminare un conflitto sanguinoso che, se fosse proseguito, avrebbe recato più danni che benefici al suo popolo.
Chi oggi ci incolpa di essere pacifisti “arrendevoli”, dovrebbe andare a rileggere i libri di storia. Occorre riflettere sulle conseguenze disastrose del nazionalismo. La guerra a tutti i costi, anche a costo di perdere giorno dopo giorno, fino all’ultimo uomo, è la guerra degli idioti, non degli eroi. I nostri detrattori dovrebbero riflettere che – con le loro opinioni pro-guerra distribuite dal tiepido salotto di casa – stanno illudendo il popolo ucraino e stanno alimentando un nazionalismo che tutto otterrà tranne che un esito favorevole dal prolungamento di un terribile conflitto armato come questo. Alla fine di questa guerra entrambe le parti, come in un gioco dell’oca, torneranno sugli stessi nodi: la neutralità, il Donbass e la Crimea. Ritorneranno alla casella di partenza con un paese distrutto e migliaia di morti.
All’estremismo della guerra a tutti i costi occorre rispondere con la moderazione. E paradossalmente noi pacifisti stiamo dando – da sponde lontane – un supporto utile alla Nato nel convincere Zelensky che la Nato non può e non deve intervenire. Ogni alternativa all’allargamento del conflitto va perseguita con responsabilità e con un fine supremo che è quello della fine della guerra e di un accordo che tenga conto delle esigenze di sicurezza di tutti gli attori in campo.
Se Zelensky lo capisce allora sarà parte della soluzione, se non lo capisce sarà parte del problema.
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Ucraina. Quei papà “disertori” costretti ad arruolarsi. “Non voglio uccidere”
Nello Scavo venerdì 18 marzo 2022
Nascosti nel bagagliaio verso la frontiera. Oppure asserragliati in campagna. Uno di loro: “Lo so che la nostra è legittima difesa, ma non riuscirei a sparare. Sosterrò la resistenza in altro modo”
Nelle foto un papà tenta di attraversare il confine nascondendosi in auto per sfuggire all’arruolamento forzato
L’ultimo l’hanno acciuffato ieri. Con la moglie, il figlio neonato e la madre di lei hanno provato ad attraversare il confine. L’uomo, per sfuggire all’arruolamento forzato, aveva ricavato sul sedile posteriore un box tra i peluche e pannolini nel quale nascondersi all’interno. Con la moglie alla guida dell’utilitaria sperava di passare inosservato e continuare a occuparsi della famiglia una volta superata la frontiera. Ma i controlli sono strettissimi. E i militari hanno voluto frugare per bene. Quando sotto ai pupazzetti hanno visto rannicchiato l’uomo, hanno estratto i fucili e un telefono. Con le armi gli hanno intimato di uscire, mentre con la fotocamera riprendevano la scena. Ora quelle immagini sono di dominio pubblico. E suonano come un avvertimento. E tra famiglia e patria, i maschi tra i 18 e 60 anni non hanno scelta.
Dove le macerie diventano trincea, al di qua del fiume Dnepr, quando il caseggiato rimasto uguale all’epoca sovietica annuncia l’ingresso nella città dei monasteri e dei santuari ortodossi, c’è chi le armi non le imbraccerà comunque. “Lo so che la nostra è legittima difesa, e che se anche dovessi uccidere il nemico per difendere la mia famiglia, mi verrà perdonato. Ma io non prenderò il fucile”.
L’ostinata nonviolenza di Yuri, tra le rovine della cintura esterna di una Kiev a cui l’armata russa ha mostrato cosa sarebbe capace di fare se entrasse tra le vie acciottolate del centro storico, non ha niente a che vedere con il pacifismo a oltranza. “Non ho nulla contro i pacifisti”, dice mentre si prepara a un’altra notte nello scantinato che tutti chiamano bunker, più per tirare su il morale che per reale capacità di resistenza delle strutture portanti. “Solo che io non voglio sparare a nessuno, non voglio uccidere, ma non voglio neanche morire”, aggiunge. Potrebbe però arrivare un momento in cui dovrai scegliere, gli facciamo notare: o la tua vita o quella di chi ti sta di fronte. “Può darsi che gli tirerò un sasso, oppure avrò così tanta paura da restare paralizzato aspettando che mi ammazzi”, risponde. “Intanto – aggiunge – cerco di dare una mano ai ragazzi che vanno a lottare. Gli spiego che non sono obbligati a farlo, ma che se lo fanno devono farlo per amore della nostra libertà, non per odio”.
Il confine della paura è sottile e insidioso almeno quanto quello che separa un codardo da un cecchino. Difficile dire che entrambi siano nel giusto. Ma per le strade di Kiev, di Odessa, di Ulman e di ogni altra trincea osservata in queste settimane non abbiamo trovato disprezzo per chi la guerra non la vuol fare. Olga, ad esempio, sa che il marito è esentato dal combattimento. Lo ha scelto lui. Niente fucili. Ma non è che si senta così tranquilla. Lui è un volontario del soccorso civile, di quelli che dopo l’onda d’urto arriva con la station wagon comperata a rate e trasformata in auto di primo soccorso, per raccogliere chi ancora ha un cuore che batte, o per radunare i pezzi di chi è stato centrato dall’esplosione.
Ci sono padri che vivono nascosti nei casolari più remoti. Tra balle di fieno e bestiame abbandonato. Non accendono neanche il fuoco, per non dare nell’occhio. Hanno accompagnato la famiglia al confine. La loro guerra l’hanno già vinta mettendo in salvo moglie e figli. Hanno anche provato a corrompere i gendarmi, ma non c’è stato niente da fare. Gli uomini vengono ricacciati indietro, verso le prime linee, ma non tutti hanno negli occhi il fuoco dell’eroe in armi.
A usare le categorie delle cronache di guerra, si direbbe che sono renitenti alla leva. Oppure disertori. “Io e Alessia non avevamo niente – racconta il ragazzo, sposo da tre settimane -. Ci siamo fidanzati e abbiamo trovato un lavoro, poi una casa e finalmente ci siamo sposati”. Hanno provato ad attraversare insieme la frontiera verso Chisinau, in Moldavia. Ma la poliziotta ucraina lo ha bloccato: “Devi combattere per la patria!”. Le lacrime di Alessia nessuno potrà mai descriverle. E’ rimasta anche lei, non ha voluto lasciarlo da solo. Lo implora di non unirsi alle milizie. “Allora combatteremo insieme”, gli dice quasi minacciandolo. Ma lui non si perdonerebbe di averla trascinata davanti al nemico. Si sente un vigliacco, un traditore di Kiev. Poi saluta con una di quelle frasi che starebbero bene nei libri: “Non andrò a combattere, devo proteggere lei. L’Ucraina è la mia terra, Alessia è la mia patria”. E di scrivere che è un disertore, proprio non riusciamo.
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Disastro ucraino: rifiutare l’arte della guerra
Domenico Gallo 18/03/2022
Di seguito l’articolo postato oggi dal magistrato Domenico Gallo sul suo sito.
«Forgeranno le loro spade in vomeri,/ le loro lance in falci;/ un popolo non alzerà più la spada/ contro un altro popolo/ non si eserciteranno più nell’arte della guerra». (Is. 2,1-5)
Dobbiamo aggrapparci alla profezia di Isaia per non abbandonare la speranza nell’avvento di quel tempo messianico in cui i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Però non possiamo attendere fino alla fine dei giorni, abbiamo bisogno della pace subito.
Ormai siamo arrivati al ventitreesimo giorno di guerra e le indiscrezioni su un possibile accordo sono contraddette da dichiarazioni bellicose e dal fragore sordo delle bombe. Il Financial Times ha pubblicato la bozza di un accordo in 15 punti, che prevede sostanzialmente una condizione di neutralità dell’Ucraina, stile Austria o Svezia, garantita internazionalmente, ed il divieto di ospitare basi militari straniere. La Russia ritirerebbe la sue forze militari restituendo i territori occupati all’Ucraina, che dovrebbe rinunciare ad ogni pretesa sulla Crimea e riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche del Donbass.
Le condizioni ventilate fanno emergere i veri nodi politici che ci sono dietro questa guerra e confermano che non è solo una questione russo-ucraina, ma alla base vi è un conflitto fra potenze imperiali. Resta così smentita la favoletta narrata sui principali giornali italiani, di una guerra scatenata dalla Russia a cagione della scelta dell’Ucraina di un modello di società aperta di tipo occidentale.
Una favola argomentata anche da intellettuali autorevoli come Antonio Scurati che, sul Corriere della Sera del 12 marzo, scriveva «a scatenare la furia devastatrice di Putin è stata la volontà degli ucraini, non di entrare nella Nato, ma di scegliere, per sé e per i propri figli, il modello di società aperta e di democrazia europea, preferendolo all’autocrazia neo-zarista e allo stato di minorità civile della Russia attuale».
Invece il modello di società non c’entra per niente, c’entra una concezione strategica nella quale l’Ucraina era l’ultima pedina per accerchiare militarmente la Russia. Il nostro ex ministro degli esteri (1996-2001) Lamberto Dini in un’intervista a Milano Finanza, ha testimoniato che: «avere delle basi NATO lungo i 1.500 km del confine ucraino per la Russia è sempre stato inaccettabile. Da qui nascono le richieste di Putin, che invece sono state ritenute irricevibili dagli USA. Gli Stati Uniti non hanno mai dato spiegazioni sul perché considerassero inaccettabile un’Ucraina neutrale. Si sono limitati a dire che la questione non era all’ordine del giorno, ma per anni hanno continuato ad armare l’Ucraina. Ora si è scatenato un conflitto assurdo, ma mi domando se Stati Uniti ed Europa non ne siano collettivamente responsabili insieme alla Russia». Se alla fine si arriverà alla pace attraverso la neutralità dell’Ucraina, allora dovremmo constatare con mano il fallimento delle classi dirigenti dei principali Paesi europei che incoscientemente hanno seguito il pifferaio magico americano anche a costo di provocare il ritorno della guerra in Europa. Bisognerebbe chiedere al nostro astuto ministro degli Esteri, che ancora l’8 febbraio dichiarava essere «un principio irrinunciabile» la libertà dell’Ucraina di aderire alla NATO, se c’era bisogno di avere migliaia di morti, distruzioni incommensurabili e milioni di profughi per rendersi conto che a questo presunto “principio” si poteva rinunciare anche prima, per scongiurare la catastrofe.
E tuttavia non è detto che quest’accordo vada in porto. Ci sono forze potenti che potrebbero farlo saltare. Nello stesso giorno in cui filtravano le indiscrezioni sulla bozza di accordo, si sono intensificati i bombardamenti delle forze armate russe che hanno centrato a Mariupol un teatro trasformato in rifugio per la popolazione civile, mentre Biden, ha annunciato nuovi aiuti militari all’Ucraina per 800 milioni di dollari. È sempre vivo il pericolo che vi possano essere delle provocazioni che comportino un’estensione ed un’ulteriore escalation del conflitto, facendo fallire il negoziato. È possibile che all’interno del governo ucraino vi siano due partiti, uno che punta al cessate il fuoco attraverso un accordo realistico e un partito di intransigenti che lo rifiuta e punta ad una strenua resistenza contando sugli aiuti occidentali. Se gli Ucraini si rendessero conto di essere una pedina di un gioco più grande di loro, forse sarebbe più facile giungere ad un accordo di pace. A questo punto dobbiamo chiederci quale sia in Italia il partito prevalente. Indubbiamente quello della guerra, la quale secondo il Governo ed il Parlamento italiano dovrebbe proseguire con altri mezzi, anche quando lo scontro armato sarà cessato. Solo così si può spiegare l’ordine del giorno approvato dal Parlamento a larghissima maggioranza con il quale si chiede di incrementare le spese militari italiane portandole fino al 2% del PIL. Quest’anno la spesa militare è cresciuta di oltre 8 miliardi, attestandosi a circa 26 miliardi; nella prossima finanziaria, secondo l’ordine del giorno si dovrebbe accrescere di altri 10 miliardi ogni anno.
È questa la lezione che sappiamo trarre dal disastro della guerra in Ucraina? Dobbiamo rilanciare la corsa agli armamenti per acquistare una potenza soverchiante sull’avversario o dobbiamo lavorare per abbassare la tensione ed immaginare un futuro in cui le spade, se non trasformate in aratri, saranno – almeno – rimesse nel fodero?
*Un vecchio aratro. Foto tratta da pixabay.com, immagine orginale e licenza
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My Lai, storia di un massacro
di Mattia Marino Sito Eco Internazionale
Il 16 marzo del 1968, un plotone di militari statunitensi compiva a My Lai uno dei più devastanti massacri della storia contemporanea.
Il 16 marzo del 1968, durante la Guerra del Vietnam (1955-1975), si consumava quella che verrà ricordata come una delle pagine più nere della storia contemporanea: il Massacro di My Lai. La Compagnia C dell’Undicesima Brigata della 23ma Divisione di Fanteria dell’esercito statunitense, agli ordini del Tenente William Calley, iniziò un’operazione di rastrellamento con l’obiettivo di distruggere e annientare il 48° battaglione dei Viet Cong, il quale secondo le indicazioni dei Servizi Segreti americani veniva segnalato sulle mappe militari come My-Lai 4, presso il villaggio di Song My, a circa 840 chilometri a nord di Saigon.
I soldati USA, una volta atterrati sul luogo, si resero protagonisti dell’uccisione di 504 civili inermi e disarmati. Il Tenente Calley ordinò ai suoi militari di sparare a chiunque tentasse di fuggire. Molti furono uccisi dai proiettili, altri vennero assassinati con le baionette; mentre il bestiame, le case e il raccolto furono completamente distrutti. Coloro i quali riuscirono a sopravvivere vennero ammassati in un canale di irrigazione e sterminati.
Durante il massacro le donne vennero stuprate e gli anziani torturati; non vennero risparmiati nemmeno i bambini e i neonati, i quali furono uccisi in massa. La carneficina venne interrotta solamente grazie all’intervento di un elicottero statunitense in ricognizione, il quale atterrò mettendosi a protezione dei civili superstiti. Il pilota del velivolo, Hugh Thompson Jr., minacciò i propri connazionali di aprire il fuoco se non avessero smesso di sparare, evitando così ulteriori uccisioni.
L’indagine fu inizialmente condotta dal Comandante Oral Henderson, il quale dopo aver interrogato diversi militari americani, redasse un rapporto nel quale veniva riportata la inavvertita uccisione di 22 civili a seguito di uno scontro a fuoco con il nemico.
A distanza di sei mesi, un giovane soldato di nome Tom Glen scrisse una lettera nella quale accusava la Divisione Americal di “ordinaria brutalità” nei confronti della popolazione civile. L’allora Maggiore dell’esercito statunitense Colin Powell fu incaricato delle indagini. Il futuro Segretario di Stato concluse che le relazioni tra i soldati americani e la popolazione vietnamita fossero eccellenti. La questione fu così insabbiata, con quello che viene definito un whitewashing, ovvero una “candeggiatura” delle notizie.
Il Massacro di My Lai venne alla luce solo un anno più tardi, nel 1969. Il soldato Ron Ridenhour che aveva sentito parlare dei fatti ma che non era presente al momento in cui accaddero, decise di inviare una lettera al Presidente Nixon, al Pentagono, al Dipartimento di Stato e a numerosi membri del Congresso. Lettera che venne ignorata da tutti, o quasi.
Ridenhour si decise così a riferire dell’accaduto a un giornalista investigativo indipendente di nome Seymour Hersch. L’inchiesta venne successivamente pubblicata da Associated Press; mentre il 20 novembre del 1969 il giornale di Cleveland The Plain Dealer pubblicò esplicitamente le foto del massacro.
Le reazioni alle notizie furono molteplici. Non mancarono dichiarazioni da parte di certi politici, i quali affermavano che il massacro fosse tutta una montatura con il fine di boicottare la guerra in Vietnam. Nel 1970 Hersh vinse il Premio Pulitzer per il suo scoop, grazie al quale si riuscì ad arrivare a delle incriminazioni formali.
L’Esercito accusò solamente quattordici uomini. Il Tenente William Calley fu accusato di omicidio premeditato, mentre altri venticinque ufficiali vennero accusati di crimini connessi. Calley fu l’unico membro del plotone a essere successivamente condannato; gli altri furono tutti assolti. A lui fu inflitta la pena dell’ergastolo. Venne però fatto uscire di prigione dal presidente Richard Nixon dopo appena due giorni, scontando poi una pena di tre anni e mezzo agli arresti domiciliari.
Il massacro fu reso noto al mondo anche grazie all’intervento del fotografo Ronald Haeberle e del giornalista dell’esercito Jay Roberts, i quali essendo stati assegnati all’unità del Tenente Calley furono testimoni oculari dell’eccidio.
Negli anni successivi si scoprì che quello di My Lai non fu l’unico caso di brutale violenza nei confronti della popolazione vietnamita. Il Los Angeles Times provò che dal 1967 al 1971 furono ben sette i massacri di civili in Vietnam, che provocarono 157 morti. 78 furono gli attacchi contro individui non combattenti e oltre 141 i casi di torture e trattamenti inumani a prigionieri di guerra.
Il massacro di My Lai ha portato alla luce per la prima volta i crimini di guerra commessi dai soldati statunitensi durante un conflitto. Quella del Vietnam fu una guerra lunga e sanguinosa, accompagnata fin dal suo inizio dalle proteste di centinaia di migliaia di giovani che manifestavano a favore della pace. Un conflitto che oggi possiamo definire quasi inutile ma sicuramente devastante, che va inserito in quello ancor più grande della Guerra Fredda. Da un lato gli USA in appoggio alle truppe del Vietnam del Sud, dall’altro Unione Sovietica e Cina con i Viet Cong del Nord.
Il Vietnam è stato per vent’anni il teatro dello scontro ideologico tra i due grandi blocchi che governavano il mondo. A farne le spese, in gran parte, come sempre, è stata la popolazione civile; ritrovatasi inerme, all’interno di un conflitto nato per pura sete di potere e competizione imperialistica.
Oggi, il Monumento alla Memoria di My Lai riporta i nomi di 504 persone uccise ma non dimenticate. 182 erano donne (17 delle quali incinte), 176 bambini (56 dei quali neonati) e 60 anziani ultrasessantenni. Ai soldati americani non fu sparato nemmeno un colpo.
Immagine in copertina di manhhai
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L’APPELLO DI YURII SHELIAZHENKO, IL CORAGGIOSO LEADER DEL MOVIMENTO PACIFISTA UCRAINO
17 Mar, 2022 | Internazionale, Politica, Slider
“Siamo determinati a non sostenere alcun tipo di guerra e a lottare per la rimozione di tutte le cause di guerra. È difficile rimanere calmi e sani di mente ora, ma con il sostegno della società civile globale è più facile”. Yurii Sheliazhenko fa parte del direttivo della rete pacifista internazionale World Beyond War. Vive in Ucraina. È segretario esecutivo dell’Ukrainian Pacifist Movement e membro dell’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza. Questo il suo appello:
“Viviamo in tempi difficili che richiedono coraggio per promuovere la pace. Quando nazioni vicine con una storia intrecciata cominciano a opprimersi, distruggersi e uccidersi a vicenda anno dopo anno, sul proprio territorio o invadendo il territorio del vicino…Quando scrivi su Facebook che la Carta delle Nazioni Unite richiede la risoluzione pacifica di tutte le controversie e che, pertanto, il presidente Putin della Russia e il presidente Zelenskyy dell’Ucraina dovrebbero cessare il fuoco e avviare colloqui di pace – e ricevi commenti pieni di oscenità e maledizioni…
Quando viene proclamata la legge marziale e la mobilitazione totale e i fucili vengono consegnati a migliaia di persone appena reclutate e i selfie con i fucili diventano di tendenza sui social e nessuno sa chi e perché qualcuno improvvisamente spara in strada…
Quando anche i civili in un condominio si preparano ad accogliere il nemico con le molotov, lo raccomanda l’esercito, e cancellano dalla loro chat un vicino percepito come un traditore solo perché ha invitato la gente a stare attenta, a non bruciare la casa comune e a non permettere ai militari di usare i civili come scudo umano…
Quando suoni lontani di esplosioni dalle finestre si mescolano nella mente con messaggi di morte e distruzione, e odio, e sfiducia, e panico, e chiamate alle armi, a più spargimento di sangue per la sovranità…
…è un’ora buia per l’umanità. Dobbiamo sopravvivere e superarla, e impedire che si ripeta. Il Movimento pacifista ucraino condanna tutte le azioni militari da parte della Russia e dell’Ucraina nel contesto dell’attuale conflitto. Condanniamo la mobilitazione militare e l’escalation dentro e fuori l’Ucraina, comprese le minacce di guerra nucleare.
Lanciamo un appello alla leadership di entrambi gli Stati e alle forze militari affinché facciano un passo indietro e si siedano davvero al tavolo dei negoziati. La pace in Ucraina e nel mondo può essere raggiunta solo in modo nonviolento. La guerra è un crimine contro l’umanità. Pertanto, siamo determinati a non sostenere alcun tipo di guerra e a lottare per la rimozione di tutte le cause di guerra. È difficile rimanere calmi e sani di mente ora, ma con il sostegno della società civile globale è più facile.
Purtroppo, anche i guerrafondai stanno spingendo la loro agenda in tutto il mondo. Chiedono più aiuti militari per l’Ucraina e sanzioni economiche distruttive contro la Russia. La Nato dovrebbe fare un passo indietro dal conflitto sull’Ucraina, aggravato dal suo sostegno allo sforzo bellico e dalle aspirazioni di adesione del governo ucraino all’Alleanza.
La Nato dovrebbe idealmente sciogliersi o trasformarsi in un’alleanza per il disarmo. L’Ucraina non dovrebbe schierarsi con nessuna grande potenza militare, che siano gli Stati Uniti, la Nato o la Russia. In altre parole, il nostro paese dovrebbe essere neutrale. Il governo ucraino dovrebbe smilitarizzare, abolire la coscrizione, risolvere pacificamente le dispute territoriali riguardanti Donbass e Crimea e contribuire allo sviluppo di una futura governance globale nonviolenta, invece di cercare di costruire uno Stato nazionale del 20° secolo armato fino ai denti.
Sarà più facile negoziare con la Russia e i separatisti se si condividerà la visione che l’Ucraina, il Donbass e la Crimea in futuro saranno insieme su un pianeta unito senza eserciti e confini. Anche se alle élite manca il coraggio intellettuale di guardare al futuro, la comprensione pragmatica dei benefici del mercato comune dovrebbe aprire la strada alla pace.
Tutti i conflitti dovrebbero essere risolti al tavolo dei negoziati, non sul campo di battaglia; il diritto internazionale lo richiede e non c’è altro modo plausibile per risolvere le controversie emergenti dai traumatici eventi del 2014 a Kiev, Crimea e Donbass, dopo otto anni di spargimento di sangue da parte delle forze ucraine e filorusse e con l’attuale tentativo militarista aggressivo russo di annullare quel cambio di regime in Ucraina.
Invece di affogare nella rabbia gli ultimi legami umani, abbiamo bisogno più che mai di preservare e rafforzare i luoghi di comunicazione e cooperazione tra tutte le persone sulla Terra, e ogni sforzo individuale di questo tipo ha un valore.
La nonviolenza è lo strumento più efficace e progressivo per la governance globale e la giustizia sociale e ambientale, rispetto alle illusioni sulla violenza sistemica e la guerra come panacea, soluzione miracolosa per tutti i problemi socio-economici.
L’Ucraina e la Russia non hanno forse sofferto abbastanza per capire che la violenza non funziona? Putin e Zelenskyy dovrebbero impegnarsi in colloqui di pace seriamente e in buona fede, come politici responsabili e rappresentanti dei loro popoli, sulla base di interessi pubblici comuni, invece di combattere per posizioni che si escludono a vicenda.”
Yurii Sheliazhenko
(appello rilanciato dall’agenzia Pressenza)
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Considerazioni sulla guerra
DAI SITI ANBAMED E DOPPIOZERO
Il pacifismo nonviolento è etico ed efficace
La lacerante questione della fornitura di armi all’Ucraina è al centro di questo scambio tra Mao Valpiana e Gad Lerner sull’atteggiamento da tenere verso la Russia e il sostegno da fornire a Kiev. “Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva”, scrive Valpiana. Secondo Lerner però l’invio a Kiev di armi europee “risponde a esigenze morali, politiche e strategiche: un sostegno concreto ai combattenti per una giusta causa che solo da noi possono ottenerlo; favorire il logoramento delle forze occupanti”
Cari Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri, Emma Bonino,
arrivo subito al punto che oggi ci divide: “armi sì / armi no” dalla UE all’Ucraina.
Scrivo a voi perché, a differenza di gran parte degli opinionisti italiani che sbeffeggiano il pacifismo facendone una caricatura, so che ne avete considerazione, per amicizia e sensibilità comuni, e perché avete motivato la vostra scelta anche in riferimento a Gandhi che, davanti ad un sopruso, tra ignavia e violenza dice che è preferibile quest’ultima. Ma il Mahatma sceglie la terza via, quella della nonviolenza del forte. In gioco ci sono princìpi e pratica, fini e mezzi, filosofia e politica. Questo tipo di pacifismo nonviolento ha due esigenze: etica ed efficacia.
Partiamo dall’efficacia. Non sappiamo quali armi “letali” vengano inviate, perché coperte dal segreto militare. Sappiamo però quanto costano (fino ad oggi un miliardo di euro), già pagato all’industria bellica con fondi anticipati dalla “transizione ecologica” (il fondo italiano di 100 milioni prelevato dalla “cooperazione”), dunque è una riconversione dal civile al militare. Queste armi arriveranno all’esercito regolare ucraino, o saranno intercettate dalle milizie paramilitari di “difesa territoriale” che stanno crescendo, anche con mercenari in arrivo dall’estero? Non ci sono bastate le lezioni della Libia e dell’Afghanistan dove le armi occidentali sono finite in mano alle bande rivali o ai talebani, con le conseguenze che sappiamo? E siamo sicuri che queste armi potranno fare la differenza sul piano della capacità militare, della potenza di fuoco, o non bisognerà alzare continuamente il tiro, nella logica militare che vince chi ha armi più letali, fino alle estreme conseguenze? (partendo dall’arruolamento dei bambini soldato, fino alla minaccia anche da parte occidentale delle armi tattiche nucleari?).
Infatti, questo è il punto che rende la guerra di oggi diversa da tutte le altre: la minaccia nucleare. È la situazione che ha configurato, all’indomani della crisi dei missili di Cuba, papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris: “In un tempo come il nostro, che si gloria della potenza atomica, è alieno ad ogni ragione che la guerra possa essere utilizzata come strumento per ripristinare diritti violati”. Anche molti osservatori militari sostengono che l’invio di nuove armi aumenta il pericolo di escalation incontrollata e rinvia ulteriormente la possibilità di successo delle trattative.
E veniamo all’etica. I Costituenti intesero mettere al bando (ripudiare) l’intervento armato (la guerra) come mezzo per risolvere le controversie internazionali anche quando la controversia ha assunto il carattere del conflitto armato. La nostra Costituzione non nega il “diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite” sancito nella Carta delle Nazioni Unite, ma ribadisce quanto la medesima Carta dell’Onu impone: “I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo”. È in questo contesto che va considerato il problema dell’invio di armi ad una nazione che subisce un’aggressione armata. Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni di quella nazione non significa automaticamente che si debba intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità, come i palestinesi i cui territori sono illegalmente occupati da decenni da Israele. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza.
Zelenskyj ha deciso di intraprendere la via della difesa armata: “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Noi diciamo che va cercata la terza via: “vivere in piedi”. Tutto questo impone certamente di aiutare chi sta resistendo, ma con quale difesa? Vanno ascoltate anche altre voci che ci arrivano proprio da Kiev. Come quella di Yurii Sheliazhenko, referente nazionale del Movimento pacifista ucraino che sull’invio delle armi ci ha detto: «Follia! È alimentare l’escalation e lo spargimento di sangue. I media internazionali sono manipolati dalla macchina da guerra. C’è bisogno di pressione internazionale per il cessate il fuoco e per arrivare a una vera negoziazione». È urgente anche sostenere, finanziare, rafforzare il crescente movimento degli obiettori di coscienza russi, e delle mamme dei soldati che si oppongono al richiamo dei ragazzi di leva, per indebolire Putin sul fronte interno.
Bisogna mettere in atto tutti gli strumenti nonviolenti per giungere al più presto al “Cessate il fuoco” – che è bilaterale e non è la resa di una parte – e promuovere il vero negoziato (per cui sta lavorando anche la Santa Sede). Le sanzioni commerciali nei confronti della Russia sono misure importanti, ma non sufficienti. Occorre il salto di qualità della ratio della lotta nonviolenta che è “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, iniziando a fare ora quello che andava fatto prima: ritirare le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing”; richiamare i contingenti militari della NATO recentemente inviati nell’Est Europa, e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite mettendo sul tavolo il compromesso dell’ Ucraina neutrale.
Dalla caduta del muro di Berlino sosteniamo la trasformazione della Nato da alleanza militare, ad alleanza per la sicurezza e la cooperazione. Dal 1995 abbiamo avanzato proposte e progetti operativi per la costituzione della polizia internazionale (corpi civili di pace europei), con formazione professionale per operatori e mediatori di pace, che avrebbero potuto intervenire preventivamente nella crisi del Donbass, e che oggi potrebbe essere una vera forza di de-escalation e di intervento sul campo. Anziché aumentare ulteriormente i bilanci militari dei singoli stati, come deciso a Versailles, bisognerebbe utilizzare quei fondi per mettere le basi oggi della difesa europea di domani, costituendo la polizia internazionale che ancora manca. Il disarmo unilaterale è una pia illusione? Non ho certezze, la nonviolenza ha tanti se e tanti ma.
So però che due antifascisti storici, che parteciparono alla Resistenza e al CNL, come Aldo Capitini e Carlo Cassola, giunsero a questa scelta politica e ne fecero la missione della propria vita e penso al pacifismo nonviolento del nostro comune amico Alex Langer (“Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente di condanna di certe aggressioni militari, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto, non avrebbe grande credibilità. Sono convinto che oggi il settore ricerca e sviluppo della nonviolenza debba fare grandi passi in avanti”). E so anche che quando Michail Gorbaciov fece il primo passo di disarmo unilaterale si arrivò, per la prima volta nella storia, al Trattato del 1987 che ha smantellato 2700 missili nucleari russi e americani, mettendo fine alla guerra fredda. Forse è proprio questa la strada giusta. Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva.
Mao Valpiana (Movimento Nonviolento)
LA RISPOSTA DI GAD LERNER
Caro Mao Valpiana,
basterebbe il tuo richiamo al comune amico Alexander Langer, di cui non smetto di avvertire acutissima la mancanza, per suggerirci precauzione e fraternità: stiamo camminando entrambi a piedi nudi su dei vetri infranti. Nessuno ha certezze da vendere all’altro. Non mi basta dunque ricordarti che fu proprio per rompere l’assedio di Sarajevo e porre fine all’infame tiro a segno su Mostar che nel 1993, due anni prima di togliersi la vita, Alex aveva fatto appello a un intervento militare esterno, patrocinato dall’Onu, a salvaguardia degli aggrediti. La situazione era molto diversa da quella odierna in Ucraina, ma tu non eri d’accordo neanche allora. Il punto che ci divide, “armi sì/armi no dall’Ue all’Ucraina” è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi perché, lo so bene, la produzione e il commercio di armi è di per sé un’oscenità. Le modalità di consegna non saranno mai trasparenti e sussistono le controindicazioni da te richiamate.
Lo so. Ma da tre settimane gli ucraini hanno scelto di resistere oltre ogni aspettativa dei loro aggressori e di noi spettatori impauriti. E’ improbabile che i rifornimenti militari europei, quand’anche facciano in tempo a raggiungerli in quantità significativa, modifichino l’esito finale di un conflitto impari. Ma rispondono a esigenze morali, politiche e strategiche cui non mi sentirei di derogare: un sostegno concreto ai combattenti per una giusta causa che solo da noi possono ottenerlo; favorire il logoramento delle forze occupanti perché (come scrive Stefano Levi della Torre) anche la capacità di durata della resistenza può ridurre l’asimmetria di rapporti di forza incombente sui negoziati; infine perché il governo Zelensky non si convinca di poter contare solo sugli Usa.
Sono evidenti le ragioni per cui diciamo no al presidente ucraino quando egli ci chiede di istituire una “no fly zone”, anche dallo schermo di una manifestazione pacifista. Siamo d’accordo che la soluzione non può venire dall’estensione internazionale del conflitto e, di più, che l’Unione europea dovrà rendersi autonoma da una Nato divenuta al tempo stesso fattore di instabilità e impotenza. Ma per seguire questo percorso di autonomia -ne sono certo, ormai segnato- non si può prescindere da un’adesione piena alla resistenza ucraina. Continuo a ricevere lettere in cui mi si ricorda il volto oscuro di quel nazionalismo. Ahimè, lo conosco bene, ma oggi è questione secondaria.
Gad Lerner “Il Fatto Quotidiano”
Considerazioni sulla guerra
Antonio Prete dal sito Doppiozero
Come ogni guerra, anche questa che il potere russo ha portato in Ucraina, è un teatro di morte e di violenza. L’atto del distruggere – vite, abitazioni, legami, istituzioni – soltanto in apparenza è strumento per un’affermazione di supremazia, di dominio territoriale, di controllo; nei fatti disvela la pulsione più propria di una politica fondata sul mito della potenza e non sulla cura della res pubblica, sui fantasmi del sacro suolo e non sulle regole del vivere civile: una pulsione che consiste nel togliere volto, pensieri, affetti, cioè singolarità vivente e senziente ai corpi di migliaia o milioni di individui, per il fatto che in un dato momento vengono considerati, in certo modo identificati, soltanto come appartenenti a un Paese ritenuto un pericoloso campo di minaccia. È dalle terre di confine che giungono sempre le minacce. Le motivazioni belliche invocano le loro ragioni, esibiscono i loro obiettivi geopolitici. Solo che nel dare forma visibile a queste ragioni, nel perseguire questi obiettivi, scelgono la via della cancellazione: di vite umane, di vite animali, di ambienti, di storia e cultura.
La politica delle armi, se osservata a distanza di qualche decennio dagli accadimenti, si è sempre rivelata come il rovescio dell’umano, e del razionale, e del sensibile. Abolizione, o sospensione, di quel sentire che fonda il sé sul riconoscimento dell’altro. Dinanzi a quel che accade in Ucraina, nelle sue regioni periferiche e nelle sue città, la condanna e l’indignazione non può che rivolgersi verso il potere politico russo e il loro primo rappresentante, ma allo stesso tempo lo sguardo e la premura e l’ansia non possono distogliersi dal dolore dei singoli, dalle morti, dai profughi, dai feriti. La compassione non può essere separata dal giudizio. E c’è ancora un altro passo nel cammino di comprensione: compassione e giudizio non possono essere riservati a un solo campo.
Accanto alle donne e ai bambini ucraini gli effetti della guerra li patiscono, in modi certo non cruenti, anche i russi, non solo per via delle sanzioni che colpiscono più i poveri dei possidenti, ma anche per via delle libertà sospese, delle opinioni censurate, dei dissensi perseguitati. In una guerra anche chi appartiene alla parte che ha generato il conflitto è esposto alla sofferenza. Un corpo ferito, e un corpo privato con violenza della vita non ha più un’appartenenza, è solo un corpo ferito, solo un corpo senza vita, e per questo la pietà, o il soccorso, non distinguono, per loro natura, il ragionevole dall’irragionevole, la causa giusta da quella ingiusta.
Quanto alle armi, la loro capacità distruttiva e la loro alleanza con la morte, con la produzione di morte, non sono neutralizzate dal fatto che chi le adopera, o lo vende, o le dona, lo fa per una causa ritenuta giusta. La loro funzione ultima è quella di uccidere e ferire.
Un punto d’osservazione difficile, quello di chi si pone nella posizione che ha la pace come orizzonte necessario, e per questo, come del resto recita la nostra stessa Costituzione, “ripudia la guerra”. Quell’articolo della Costituzione bisognerebbe scriverlo a grandi lettere sulle pareti di ogni fabbrica che produce e vende armi: l’asprezza della contraddizione potrebbe forse suggerire qualche passo in più nella critica politica della produzione di armi. Sul piano poi delle relazioni internazionali la grande questione del disarmo, e la via degli accordi progressivi tra organismi politici sovranazionali sulla dismissione di armamenti letali e di armi nucleari appare un’illusione sfiorata alcuni decenni orsono e ormai tramontata. Le spese militari nella loro roboante e proterva crescita offendono la povertà, sbeffeggiano le diseguaglianze. Irridono a ogni forma di cultura.
Un’ultima considerazione. La prossimità, l’aiuto, il soccorso rivolti alla popolazione ucraina, l’accoglienza messa in campo per i profughi, tanto più possono attingere a una compassione per dir così pura, e profonda, quanto più includono nell’orizzonte dello sguardo e della cura, e nelle ragioni dell’indignazione, altri feriti, o sottoposti a violenze, sotto altre latitudini, sotto altre condizioni. Si tratta insomma di non respingere tra gli invisibili i campi profughi libanesi, le metodiche occupazioni e aggressioni nella striscia di Gaza, i campi-lager libici, e così via.
Un’enumerazione amarissima che dovrebbe includere quel che nel passato recente è stato frettolosamente nascosto e che i nomi di Baghdad o Kabul o Damasco possono evocare. Un’enumerazione che non può distogliere e sperdere la cura, ma può anzi di volta in volta radicare questa cura su ragioni non di schieramento politico ma semplicemente umane. Possono sembrare considerazioni di comoda astrazione, che sfuggono al dovere di prendere posizione, e schierarsi, e resistere, eppure da molti anni organizzazioni come Emergency o Medici senza frontiere, e tante altre a loro simili, non fanno che muoversi, con ammirevole determinazione e dedizione, in questo orizzonte. Il loro punto d’osservazione, e non le logiche politiche e di sopraffazione e di radicamenti territoriali e nazionalisti, può dischiudere un nuovo sguardo. Forse, un nuovo tempo.
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Resistenza civile
Lorenzo Guadagnucci dal sito Comune info
La resistenza armata è descritta e concepita come una scelta ovvia e opportuna per l’Ucraina, ma perché scartare a priori altre strade? Perché non incoraggiare una resistenza civile del popolo? Certo, non potrebbe fermare l’invasione, ma nemmeno la resistenza armata sembra in grado di farlo e non a caso Zelenski parla di terza guerra mondiale. Una resistenza popolare con forme di non-collaborazione e boicottaggio potrebbe col tempo cambiare lo scenario, scrive Lorenzo Guadagnucci, favorire la nascita di una conferenza internazionale su tutte le guerre in corso ma anche l’accoglienza per gli obiettori di coscienza ucraini
Fra i tanti paradossi del non-dibattito sulla guerra in Ucraina e sulle scelte che abbiamo compiuto o stiamo per compiere e su ciò che ne può conseguire (questo aspetto, in particolare, è pressoché inesistente nel discorso pubblico), c’è un piccolo ma rivelatore paradosso. Molti, fra quanti sostengono la necessità di inviare armi da guerra al governo ucraino, fanno un parallelo con la resistenza italiana durante la seconda guerra mondiale: partigiani allora contro l’occupazione nazifascista, partigiani oggi contro l’invasione russa; il paradosso è che gli eredi dei nostri partigiani, cioè l’Anpi, respinge tale accostamento ed è scesa in piazza per la pace e contestando l’opportunità di gettare benzina, cioè armi, sul fuoco della guerra. Paradosso nel paradosso: fra chi sostiene il parallelo Italia ’43 – Ucraina ’22 non sono pochi i detrattori della resistenza italiana, sempre sminuita nella sua importanza, se non attaccata per le sue attitudini politiche e le sue azioni.
Proprio un’analisi storica ci permette di avviare un ragionamento attorno alle scelte che stiamo compiendo e alle prospettive che ne conseguono. È pacifico, sul piano storico, che i nostri partigiani durante la seconda guerra mondiale furono un supporto – prezioso e di enorme spessore morale, un viatico all’insediamento della repubblica antifascista, ma un supporto – alle forze armate alleate, vere protagoniste sul piano militare della liberazione d’Italia e della sconfitta dell’esercito tedesco. Mutatis mutandis, la scelta di armare l’Ucraina è stata presa senza prefigurare alcunché: gli esperti militari sostengono che per fermare e sconfiggere l’invasore russo non basterà distribuire armi alla cittadinanza, ma servirebbe un intervento militare esterno, cioè cacciabombardieri e tutto il resto, quindi una guerra aperta contro la Russia da parte della Nato, dell’Unione europea o almeno di una coalizione di stati. Se questa fosse la strategia, l’impulso alla resistenza ucraina avrebbe un senso diverso – cioè più senso – da come si prospetta attualmente, sia pure al prezzo di scatenare – sostanzialmente – una terza guerra mondiale.
Altrimenti, qual è l’obiettivo dell’invio di armi? Nessuno si è sentito in obbligo di chiarirlo, nell’assenza di un vero dibattito sulla guerra in corso e sulle opzioni che abbiamo a disposizione. Se non vogliamo la terza guerra mondiale – e tutti dicono di non volerla – e se non è possibile fermare altrimenti l’invasione russa, perché inviamo armi? Per aiutare la giusta resistenza ucraina, si dice. Ma con quali obiettivi? In vista di che cosa? Di quale via d’uscita, cioè di quale soluzione che possa far tacere le armi? E a che prezzo? Nessuno ne parla.
Una resistenza armata?
È possibile che si pensi di rallentare l’invasione, sperando che nel frattempo succeda qualcosa a Mosca: una rivolta popolare, un golpe a opera degli oligarchi… Mah. O forse si ipotizza di convincere Putin, attraverso una resistenza più forte del previsto, a limitare i propri obiettivi e magari “accontentarsi” di occupare solo una parte del paese. O forse altro ancora, ma nessuno menziona ipotesi e prospettive; nessun giornalista incalza i governi europei su questo punto, né un dibattito si è aperto nel mondo politico: tutti sembrano accontentarsi delle decisioni prese finora, senza spingersi oltre, senza offrire alcuna prospettiva. Il dubbio dunque è legittimo. Davvero una resistenza armata in Ucraina è la soluzione migliore per l’avvenire del popolo ucraino e di tutti gli europei? Non c’è il rischio che tutto si risolva in una carneficina ancora più cruenta senza il minimo avvicinamento a una soluzione?
In questa paralisi del pensiero chiunque voglia mettere la guerra in Ucraina in una prospettiva storica e sul più ampio scenario geopolitico globale, viene messo sotto attacco e accusato di fare il gioco del nemico, se non si trova addirittura inserito nel girone infernale dei “putiniani” (metodo violento e volgare praticato sia da modesti esponenti politici sia da supposte grandi firme del giornalismo). Eppure, non è possibile affrontare politicamente la guerra ucraina, senza gli strumenti della politica e quindi senza prospettiva storica. Il movimento pacifista italiano ha messo a disposizione le sue conoscenze e la sua esperienza pluridecennale – a questo è servita la manifestazione del 5 marzo – ricordando, fra le altre cose, gli errori compiuti nell’ultimo trentennio: è dal 1989, quando il blocco sovietico cominciò a dissolversi, e non dal febbraio scorso che pacifisti e nonviolenti indicano la necessità di immaginare un futuro di pace in Europa attraverso la collaborazione con la Russia e i paesi limitrofi, liberando il continente dai missili ereditati dalla guerra fredda (“dall’Atlantico agli Urali”, si diceva); rispettando l’impegno a non allargare la Nato verso est; dismettendo le testate atomiche.
È un fatto storico che siamo andati in direzione opposta, con sicumera da apprendisti stregoni, favorendo pericolosamente lo sviluppo dei nazionalismi nell’est europa e l’ansia russa di accerchiamento, come detto e scritto infinite volte da innumerevoli osservatori e diplomatici. La guerra un corso potrà finire solo riprendendo il filo di questo ragionamento, ma toccherà farlo con un’occupazione in corso, una minaccia di guerra globale incombente e migliaia di morti in più.
La resistenza armata oggi è descritta e concepita come una scelta ovvia, oltre che opportuna, nell’Ucraina soggetta a un’invasione, ma perché scartare a priori altre strade? Perché non domandarsi se non stiamo rischiando di incrementare distruzione e morte, col carico di odio aggiuntivo che ciò comporta, senza un vero motivo, in assenza di obiettivi politici percepibili, cosicché fra qualche settimana e con qualche migliaia di morti in più, si presenti comunque la necessità di confrontarsi con un’Ucraina occupata dai russi e la necessità di trovare un equilibrio geopolitico.
Una resistenza popolare
Perché allora non incoraggiare una resistenza civile del popolo ucraino? Sarebbe meno cruenta e probabilmente più efficace. Certo, non potrebbe fermare l’invasione, ma nemmeno la resistenza armata sembra in grado di farlo e non a caso il presidente Zelenski ha già chiesto un intervento diretto dell’occidente, quindi la terza guerra mondiale. L’occupante, una volta terminata l’invasione, dovrà “governare” in qualche modo l’Ucraina, e una resistenza popolare con forme di non-collaborazione e boicottaggio potrebbe col tempo cambiare lo scenario, nonostante gli sfavorevoli rapporti di forza in ambito militare. Una resistenza civile renderebbe anche più plausibile e più concreto l’intervento di un mediatore internazionale, potrebbe ridare smalto all’Onu, fondata a suo tempo per impedire il ricorso alla guerra come metodo di regolazione dei rapporti fra stati – il metodo, non dimentichiamolo, che nel secolo scorso ha trasformato l’Europa in un cumulo di macerie e in un immenso cimitero.
In un documento dei giorni scorsi, i pacifisti tedeschi suggeriscono questa strada: chiedono il cessate fuoco russo, una conferenza internazionale su tutti i conflitti in corso, un’azione diplomatica per una nuova architettura di sicurezza ma anche la rinuncia ucraina alla lotta armata e il passaggio alla resistenza civile, nonché l’accoglienza per gli obiettori di coscienza ucraini, e poi il sostegno di lungo periodo ai cittadini ucraini nella ricostruzione di spazi di democrazia anche in condizioni di temporanea occupazione russa.
Verso l’irrimediabile
Conosciamo già la reazione immediata del Palazzo e dei media mainstream: roba da sognatori, mentre i tank russi avanzano; Putin va fermato e basta. È per via di questo riflesso pavloviano – il rifiuto delle riflessione a mente aperta con profondità storica – che le manifestazioni pacifiste di questi giorni vengono ignorate, sbeffeggiate o messe esplicitamente sotto accusa, ma qui si torna al punto di partenza. Se l’obiettivo è davvero fermare l’invasione, come ignorare le richieste di escalation che arrivano dal presidente Zelenski? E come evitare, allora, la terza guerra mondiale?
Nessuno ha certezze di fronte agli orribili avvenimenti di questi giorni, ma senza un dibattito serio, senza mettere i fatti in una prospettiva storica, senza immaginare una soluzione di medio e lungo periodo che consideri e includa gli interessi geopolitici russi (nonostante i crimini di Putin e dei suoi generali, che forse un giorno saranno puniti), il rischio incombente è uno scivolamento progressivo, passo dopo passo, verso l’irrimediabile.
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Ieri, oggi (e domani?)
di Mauro Baldrati dal sito Carmilla
Non si creda che durante il ventennio il regime fascista fosse un organismo omogeneo, pervaso da esaltazione e adorazione per il Duce sul cavallo bianco, come vagheggiava Sofia Loren in Una giornata particolare. O meglio, nell’immaginario popolare era certamente diffusa questa riduzione comica del Potere, ma la ragnatela che avvolgeva il paese con la sua trama demagogica e la sua violenza, copriva un nido di vipere, un branco di belve fameliche in guerra tra loro. C’erano rivalità tra i gerarchi, guerre intestine, calunnie, maldicenze. La corruzione dilagava e trascinava con sé i complotti, gli scandali, le richieste di epurazioni e di confino. Mussolini lo sapeva. Sapeva tutto. Ogni giorno riceveva memoriali, denunce delle malefatte dei vari podestà o federali. Leggeva, sottolineava con le immancabili matite rosse e blu a punta grossa, e taceva. E non agiva. Lui non agiva. Qualcun altro doveva svolgere il lavoro sporco. Quando, dopo la marcia su Roma e il colpo di stato, iniziò la massiccia opera di burocratizzazione “totalitaria e integrale del regime fascista”, il suo primo pensiero fu di cacciare dalle leve del potere la masnada di trafficanti, ma soprattutto i teppisti, i picchiatori e gli assassini, esseri ignoranti e bestiali di cui non aveva più bisogno. Anzi, rappresentavano un intralcio per il suo progetto di un regime assoluto, privo di opposizione e senza la decadenza plutocratica della democrazia liberale. Li aveva usati, esaltati coi suoi comizi incendiari dove incitava alla violenza “giovane” e alla devastazione “chirurgica”, mentre sottobanco tramava coi detestati borghesi liberali e persino coi socialisti per far entrare i neonati fascisti in quella cloaca di esseri “stracchi e putrefatti” che era il Parlamento. Ma ora che il Potere era conquistato c’era bisogno di pragmatismo, di obbedienza cieca e religiosa (“il fascismo con è una ideologia, è una fede”). Per cui i barbari squadristi, gente che aveva solo l’istinto di appiccare il fuoco, di ammazzare e di stuprare, andavano tolti di mezzo. Lo stesso fece Hitler in Germania con le SA. Per un periodo iniziale infatti i nazisti tedeschi replicavano le azioni dei maestri italiani, e Hitler considerava Mussolini il suo Vate. Luchino visconti ne La caduta degli dei ha rappresentato magistralmente quegli eventi, col crescendo dell’orgia omosessuale delle SA, fino all’irruzione delle SS che li sterminarono tutti. Così nel 1926 Mussolini nominò un suo fedelissimo alla guida del Partito Nazionale Fascista, Augusto Turati, col compito di ripulirlo dalle mele marce, dagli squadristi, dai ladroni e dai ladri di polli. E Turati, uomo di cieca fede, agiva “devotamente”, epurando senza pietà. Cacciò dal partito decine di migliaia di iscritti e funzionari, alcuni mandandoli al confino, qualcuno in prigione, altri nella triste palude del dimenticatoio.
Intanto Mussolini, un anno dopo, creò l’OVRA, la polizia segreta copiata, pare, dalla Čeka sovietica, col compito di reprimere ogni attività antifascista. Ma non solo. L’OVRA sorvegliava anche i potenti, le “Eccellenze”, i gerarchi, i sindaci, i prefetti, raccogliendo dati, delazioni, spiandone i comportamenti e archiviandone i vizi. E ancora una volta il copione fu copiato. Edgar Hoover col suo FBI agiva allo stesso modo. Spiava i presidenti, i ministri, i potenti industriali, fotografando orge, tradimenti, omosessualità, pedofilia, ogni genere di bassezza in contrasto con la morale puritana. Questo enorme archivio della perversione gli servì per restare al potere per quasi quarant’anni, intoccabile, poiché teneva sotto ricatto i maggiorenti d’America. E qui, come il regista Visconti, il maggior narratore di quel periodo e di quelle azioni è stato uno scrittore, James Ellroy, il cantore della depravazione politica (si legga soprattutto American Tabloid).
Ma non durò. Turati non durò. La sua azione di incorruttibile epuratore scatenò la furia del sottobosco, fece insorgere i gerarchi infastiditi dalla violazione dei loro segreti. Soprattutto il feroce Roberto Farinacci, l’idolo dei duri, ex capo squadrista, difensore dei killer di Matteotti, che continuò a deridere e a insultare, chiamandolo “il maiale” anche dopo il ritrovamento del corpo straziato. Iniziò una campagna denigratoria, sfruttando soprattutto le cosiddette devianze sessuali di Turati, puntualmente registrate dall’OVRA. Questo è un appunto riservato di Arturo Bocchini, lo spietato capo dell’OVRA, per Mussolini del 17 gennaio 1930:
L’On Lando Ferretti mi ha riferito che la Baronessa D’Avanzo gli aveva confidato che S.E. Turati è un pervertito sessuale. Infatti durante l’erotismo con la Davanzo egli si faceva cacare sullo stomaco e pisciare in bocca non solo ma che nel corso del coito non faceva che chiamare uomini, evidentemente suoi amanti, e fra gli altri l’On. Garelli di Vicenza.
Uomini come amanti, abuso di cocaina, addirittura stupri di bambine, questa montagna di fango mandò in rovina Turati, che non fu mai più ricevuto dal Duce, lui che era stato il suo funzionario più vicino e più ascoltato. Turati, disperato, cercò di difendersi, supplicando tutti suoi contatti di intercedere presso Mussolini perché lo ricevesse e lo ascoltasse, ma invano. Mussolini in realtà leggeva, sapeva, ma come sempre non agiva. Questo il passo di un colloquio col giornalista Yvon de Begnac, il suo biografo:
Voi mi dite che Turati fu sommerso dalla calunnia, e che la sua omosessualità fu una fosca favola inventata dall’uomo di Cremona (Farinacci ndr) ai suoi danni. Anche io sono convinto dell’innocenza di Turati. Ma, in Italia, quando la voce pubblica , comunque organizzata, colpisce, nulla è possibile fare per renderla inoperante.
Quando la voce pubblica colpisce. Mussolini conosceva alla perfezione la potenza di fuoco dei media, la forza distruttrice della calunnia. Turati, colpevole o innocente che fosse, era bruciato. Fu addirittura mandato in una casa di cura psichiatrica.
E oggi? Qualcuno dice che la storia si ripete, ma il sospetto è che invece sia sempre la stessa storia. Infatti i nipotini di quei gerarchi e di quegli squadristi sembrano degli studiosi attenti di quel periodo, del quale importano le intuizioni e le azioni. Al bisogno i loro giornali più estremi, quelli del brand Farinacci, usano la maldicenza e la calunnia senza esitare. Ma non solo. E’ in atto una mutazione dell’informazione in propaganda che lascia attoniti e spaventati. Sembra che quel coro antico di voci morte provenienti da un passato dimenticato navighi verso la menzogna del presente, lo attraversi e punti verso la tragedia del futuro. Senza bisogno di vere e proprie epurazioni, o di arresti, ogni voce discorde da quella ufficiale viene accuratamente emarginata. Si sta creando anche una sorta di censura interna, per cui chi potrebbe parlare preferisce tacere. Da almeno due anni va avanti questa situazione. L’elemento scatenante è stata la pandemia, dove chiunque si permetteva di eccepire sull’azione del governo veniva duramente accusato e persino minacciato. E ora la situazione, se possibile, si è ulteriormente aggravata con la guerra in Ucraina. Il governo di quel paese, da più parti denunciato come corrotto e illiberale, è diventato un baluardo di democrazia. Mentre tutto ciò che è russo è il Male Assoluto. Anche gli atleti, gli scrittori, i musicisti. Ogni dubbio sull’opportunità di inviare armi e soldati in Ucraina, anche con la premessa di essere contrari alla guerra e all’invasione, viene immediatamente stigmatizzato come atteggiamento pro-Putin, il nuovo demone. E’ una minoranza che lo impone, attraverso il controllo dei principali media (dai sondaggi risulta che il 55.3% della popolazione è in disaccordo con le scelte interventiste del governo), ma l’opposizione è già al confino, anche se in casa propria. In quanto alla sorveglianza più o meno segreta, i metodi si sono affinati. L’OVRA si è parcellizzata, sciolta allo stato liquido come il miele nel tè. Gioacchino Toni, su questo sito, ha pubblicato una ricognizione sulle nuove metodologie del controllo, qui la serie di articoli.
Intanto il Potere sa, il Potere tace. E il Potere non agisce dove non conviene, proprio come Mussolini. No alla guerra, ma non a tutte le guerre. Sì ai profughi, ma non a tutti i profughi. No ai dittatori, ma non a tutti i dittatori. No alla corruzione, ma la corruzione continua a dilagare, vedi le punte dell’iceberg dei cantieri del PNNR. L’Italia non è più all’avanguardia su diverse attività, l’arte, la musica, la manifattura, ma su un aspetto non ha rivali: nella malapolitica e nella malainformazione non ci batte nessuno.
(I documenti citati sono riportati da Antonio Scurati in M, L’uomo della provvidenza – Le foto: 1 Augusto Turati, 2 Roberto Farinacci)
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Noi scegliamo la pace. Risposta al Corriere della Sera
di Maurizio Acerbo
Ho mandato sabato mattina questa lettera al direttore del Corriere della Sera in risposta all’articolo di Antonio Polito intitolato Quelli che non scelgono. Non è stata pubblicata quindi la socializzo in rete. (M.A.)
Ringrazio il Corriere della Sera per l’attenzione che ci dedica. Oggi manifestiamo a Roma con lo striscione “FERMARE LA GUERRA. Né con Putin né con la NATO”.
Non è vero però che noi non scegliamo, come sostiene Antonio Polito. La nostra scelta è quella della pace e del no alla guerra, del rifiuto dell’imperialismo occidentale e del nazionalismo russo o ucraino, delle politiche di potenza che usano i popoli come pedine, delle nostalgie zariste di Putin come dell’espansionismo NATO, delle aggressioni militari chiunque ne sia responsabile. Siamo contro Putin e contro la NATO. La nostra condanna dell’invasione decisa da Putin è stata immediata ma non ci facciamo arruolare da chi negli ultimi trenta anni ha raso al suolo interi paesi.
La NATO non è un’organizzazione umanitaria ma la più potente macchina bellica aggressiva del mondo con un bilancio militare 18 volte superiore alla Russia, guidata da una potenza come gli USA che non rinuncia a un ruolo di dominio unipolare che persegue attraverso il ricorso alla guerra, alla destabilizzazione, alle sanzioni illegali. Putin sta facendo quello che hanno fatto la NATO e gli USA causando milioni di vittime. Noi eravamo contro allora e oggi. Consideriamo criminale Putin come i governanti occidentali. Lo stesso Polito ammette la cinica strategia. Le armi servono per ritardare la vittoria di Putin e fargli pagare un prezzo politico per la responsabilità di “migliaia di vittime innocenti”. Hillary Clinton, due giorni fa in un’intervista a una tv USA, ha detto che l’Ucraina può diventare l’Afghanistan di Putin se continuiamo a finanziare e armare ucraini. Sarebbe questa la solidarietà? Si tratta di un inganno verso il popolo ucraino a cui noi non ci prestiamo.
A meno che non si voglia fare la terza guerra mondiale la Nato non può fare la no fly zone invocata da ucraini. La NATO usa un popolo come carne da cannone per proseguire lo scontro con Putin attraverso una guerra per procura? Si stanno manipolando i sentimenti di solidarietà e umanità verso chi viene aggredito per arruolare le opinioni pubbliche occidentali. È sempre accaduto e sappiamo che è difficile mantenere una posizione che invita a ricercare una soluzione di pace. Per avallare la sua tesi Polito ricorre a una ricostruzione storica segnata dalla rimozione di fatti incontrovertibili. L’invasione russa è cominciata il 23 febbraio ma il conflitto è iniziato nel 2014 con 14.000 morti. Nelle settimane che hanno preceduto l’intervento ci sono stati attacchi ucraini contro le repubbliche di Donetsk e Lugansk. In questa guerra ci sono molti torti e non stanno da una sola parte. Se il revascismo nazionalista granderusso è da condannare, non si possono tacere i caratteri inquietanti del nazionalismo ucraino con la riabilitazione del criminale filonazista Bandera e il ruolo dei neonazisti attuali. Da Sergio Romano a Marc Innaro qualsiasi commentatore imparziale ha ricordato che le tensioni hanno come concausa l’espansionismo della NATO verso est. Invece di approfittare di un conflitto aperto da tempo gettando benzina sul fuoco, i governi dei paesi europei e la stessa UE avrebbero dovuto assumere un ruolo di pace e dialogo. Gli accordi di Minsk avevano dimostrato che la via della pace non è impossibile.
Di sicuro un’Europa di pace non si costruisce con le logiche di guerra della NATO. Lavoriamo a un grande movimento pacifista che unisca i popoli dall’Atlantico agli Urali. Le enormi risorse che si stanno destinando al riarmo è meglio usarlo per costruire un futuro condiviso di pace.
Un movimento contro la guerra in Russia
dal sito Doppiozero Svetlana Reiter, Grigory Yudin
Il 24 febbraio, la Russia ha cominciato la guerra in Ucraina. In quello stesso giorno, sono cominciate le proteste in tutta la Russia. È difficile chiamarle manifestazioni di massa, anche se in definitiva quasi 6,500 persone sono state arrestate (in Russia, questo genere di assembramenti è di fatto vietato, e le autorità perseguono persino individui che fanno picchetti solitari). Anche il sociologo Grigory Yudin è stato arrestato ed è finito in ospedale in seguito a una protesta contro la guerra a Mosca. La corrispondente speciale per Meduza Svetlana Reiter ha discusso con Yudin il motivo per cui non ha senso dire che le proteste in Russia siano “piccole” – e perché Yudin crede che gli studiosi e gli intellettuali debbano assumere una posizione dettata da principi morali.
[Meduza è un organo russo di informazione indipendente con sede in Lettonia, che pubblica sia in inglese che in russo. Di recente è stato preso di mira dal Cremlino e ha invitato i suoi lettori e le sue lettrici dall’estero a sostenerlo. NdT]
Quando abbiamo cominciato a pianificare questa intervista, hai avuto da ridire sulla mia affermazione che le proteste contro la guerra fossero piccole: “Non così tanto”, hai risposto. Cosa te lo ha fatto dire?
Non viviamo a Berlino, dove a partecipare a una protesta ti becchi una pacca sulla spalla. Puoi finire con un trauma cranico, o passare la notte in carcere, o ricevere l’ordine di spogliarti [per un’ispezione corporale], o venire denunciato. Data la situazione attuale, non possiamo escludere che le proteste verranno presto punite con una pena fino a venti anni di galera o con la pena capitale. Quindi, ecco, a mio parere le persone stanno esponendosi in massa.
Durante una recente protesta, sei stato picchiato al punto da avere una commozione cerebrale. Ci puoi dare qualche dettaglio in più?
Francamente non ho molta voglia di parlarne – in fin dei conti è anche poco importante rispetto all’enorme disastro che stiamo vivendo. Comunque, sì, quella serata è finita con un trauma cranico.
Come ti senti ora?
Così così. Mi sto ancora riprendendo.
Qualcuno ha già condotto indagini sociologiche per stabilire quali segmenti della popolazione russa approvano le ostilità in Ucraina?
Le indagini sono in corso, ma è troppo presto per parlare dei risultati – non possiamo ancora basarci su numeri. O, in ogni caso, io non li ho.
Pensi sia possibile che le proteste si intensificheranno?
Sì, è possibile. La situazione iniziale era in gran parte inaspettata, e in effetti ci sono degli studi che mostrano come le persone in Russia non fossero interessate all’Ucraina. Da qui la convinzione che non ci sarebbe stata alcuna guerra.
Qui il pericolo è che, quando non sei interessato a qualcosa, allora dopo un evento scioccante sei pronto a accettare qualunque interpretazione conveniente ti venga offerta. Il che è esattamente ciò che è avvenuto – molte persone si stanno aggrappando alla spiegazione più immediata, prontamente fornita dalla propaganda di governo. È la scelta più comoda: in generale, la gente vuole evitare problemi, specialmente durante una guerra.
Ma già ora c’è un fattore che introduce una dissonanza nel quadro interpretativo – è ovvio che la guerra-lampo è fallita. Sta diventando sempre più difficile far finta che si tratti di una vicenda che ha luogo in qualche angolo remoto del pianeta e che tutto sarà passato in fretta. Al contrario, è già ovvio come si tratti di un conflitto militare di dimensioni considerevoli. Molte persone nello schieramento russo sono state già uccise o ferite, e molte lo saranno nei prossimi giorni. I cittadini e le cittadine russe hanno molti parenti in Ucraina, e, a giudicare da svariate fonti, le forze aeree russe hanno iniziato a usare bombe a grappolo, il che si tradurrà in un numero molto elevato di morti civili.
Tutto ciò disturberà il quadro interpretativo, e le persone saranno obbligate a prendere una posizione chiara. Diventerà impossibile seppellirsi nel tran tran quotidiano. In più, la realtà a cui siamo abituati verrà distrutta dalle conseguenze del collasso economico. Ecco perché penso che sia probabile un aumento degli atteggiamenti critici in diversi segmenti della società.
Ma non siamo certo i soli ad averci pensato – e dobbiamo aspettarci azioni nel futuro prossimo che proveranno a stroncare sul nascere ogni tipo di protesta generalizzata.
Che genere di azioni dobbiamo aspettarci?
Se la leadership russa riconosce gli eventi, cioè, se ammette che si tratta di una guerra e non di una vaga missione per liberare [l’Ucraina], allora è probabile che verrà introdotta la legge marziale – con le conseguenze del caso: mobilitazione generale, economia di guerra, liquidazione dei beni. È possibile che la distruzione dell’economia venga attribuita a “agenti nazisti infiltrati”, e potremmo assistere al ritorno della pena di morte. Ovviamente, i confini verranno chiusi – dopotutto, c’è una guerra, siamo in uno stato di eccezione.
Cosa si può fare?
La vita sarà diversa nel possibile scenario futuro che ho appena delineato, quindi le strategie dovranno cambiare: vedremo resistenza clandestina e lotte partigiane con tutti i rischi e le implicazioni a esse associate. La situazione attuale sta avvicinandosi a un punto di svolta – l’esito sarà o quello che ho appena descritto, oppure l’aumento di un malcontento generalizzato dal basso. Stiamo già vedendo come questo malcontento stia crescendo…
Beh, sta crescendo, ma più lentamente del conflitto armato.
Sì, sta crescendo troppo lentamente, ma sta comunque crescendo. Stiamo vedendo sempre più figure pubbliche prendere una posizione contraria [alla guerra]: membri del parlamento, associazioni di vario genere; personaggi famosi, che, nonostante la loro tendenza a tacere, stanno comunque esponendosi. Forse non è molto, ma è già qualcosa.
Se la tendenza a esporsi passa dai circoli della sub-élite a quelli dell’élite vera e propria, circoli che sono più vicini alla leadership russa, i rischi per Putin sono ovvi. L’intera vicenda può cominciare a apparire come un’avventura senza senso con conseguenze terrificanti e una sconfitta ineluttabile all’orizzonte. Per questo dico che siamo a un punto di svolta: il mondo in cui viviamo adesso non durerà a lungo…
Forse un’ora o due.
Sì, forse persino così poco.
È vero che questa è la prima volta che la Russia si trova in una situazione del genere. Ciò nonostante, puoi come sociologo provare a fare qualche previsione? Quali sono le probabilità che questo punto di svolta produca un risultato più favorevole, rispetto a uno meno favorevole? Nutri qualche speranza nei negoziati cominciati il 28 febbraio?
Siamo di fronte a una situazione senza precedenti nella storia del mondo – non c’è mai stato niente del genere prima. In questo momento, il mondo è sull’orlo di una catastrofe mostruosa, perché non c’è una conoscenza logica su cui possiamo fare affidamento.
Il mondo sta già realizzando che il 24 febbraio ha segnato la fine di un intero, lungo periodo postbellico, e ora stiamo vivendo in una nuova era. Il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha detto che questa era vedrà una nuova Germania, pronta a assumersi nuove responsabilità.
Oggi siamo sull’orlo di una guerra immane. I suoi potenziali partecipanti possiedono armi nucleari, che alcune persone stanno già minacciando di usare. Parole come “nazista” o “de-nazificazione” sono tutt’altro che innocue – nel discorso attuale, portano con sé il potenziale per una totale disumanizzazione e preparano il terreno per ogni tipo di “soluzione finale”. E non dovremmo escludere la possibilità che la risposta sia analoga…
L’analogia più vicina [al momento attuale] è il 1938-1939. Tuttavia, a quel tempo, il mondo era segnato dalle divisioni, mentre ora si sta riunendo. Non del tutto, naturalmente, ma ogni giorno che passa la gente si rende conto sempre di più che la situazione è davvero seria. Ecco perché penso che siamo tutti di fronte a un bivio che determinerà [il nostro futuro collettivo] per i decenni a venire. Questo vale soprattutto per bielorussi, russi e ucraini – tre popoli che sono caduti in ostaggio di chi punta le armi contro di loro e cerca di mettere gli uni contro gli altri.
È importante capire che questa non è una guerra della Russia contro l’Ucraina. Questa guerra è condotta da una fazione che ha accumulato un mucchio di armi, ha preso a usarle per intimidire, e ora è passata alle ostilità aperte contro tutti e tre questi popoli.
In questo momento, ti senti più un essere umano o più uno studioso? O è la domanda più stupida del mondo? Riformulo: Dobbiamo studiare o fuggire?
No, non è affatto stupida; è una domanda abbastanza logica [da fare] in un momento storico decisivo. È importante capire che queste due posizioni coesistono in ogni ricercatore o ricercatrice e devono in parte coincidere. Devi sapere in cosa credi e per cosa stai studiando: se studi o analizzi senza un fine specifico, solo perché ti è stato ordinato o richiesto, finirai come Elvira Nabiullina [la governatrice della Banca centrale russa]. Rischi di diventare un criminale di guerra.
Pensi che Elvira Nabiullina sia una criminale di guerra?
Albert Speer era un criminale di guerra.
Non è una vittima delle circostanze?
Se è per questo, non era una vittima delle circostanze anche Adolf Eichmann? Non sto facendo una battuta – a un certo punto devi smettere di pensare a te stesso come a un semplice ingranaggio, e devi trovare un punto d’appoggio che diventi la base di una visione morale. E da quel punto in avanti, le tue capacità analitiche devono servire quella visione, ma allo stesso tempo devi anche essere in grado di guadagnare una certa distanza critica, capire come mantenere la tua freddezza e non perdere l’autocontrollo. Ma è importantissimo non perdere la tua visione morale – soprattutto nei momenti critici.
Tu stesso cosa preferiresti in questo momento: andartene o restare?
Ci sono delle linee rosse per me. So per certo che non andrò in nessun caso a combattere in questa guerra folle, la più inutile di tutta la storia della Russia. È peggio della guerra di Crimea e finirà o in una catastrofe per il mondo intero o soltanto per il paese che amo di più. Putin sta agendo contro gli interessi della Russia, e io non muoverò in nessun caso guerra alla Russia.
Quanto è legittimo aspettarsi che ogni persona trovi il suo punto di appoggio morale? E cosa deve succedere perché Elvira Nabiullina o, per fare un altro esempio, Sergei Shoigu [il ministro della difesa russo, NdT] si comportino diversamente?
Questo è una faccenda che devono risolvere loro con il loro Dio. Io penso che ci troviamo in un momento che, nonostante la sua unicità, ricorda comunque gli eventi del XX secolo. Hannah Arendt ha detto credo molto giustamente che ci sono momenti in cui devi accettare la tua impotenza a cambiare il mondo nel suo insieme e capire di cosa sei personalmente responsabile – in modo tale che dopo sarai capace di vivere con te stesso, potrai sopportare di guardarti allo specchio.
Questa è la domanda più importante a cui ogni persona deve rispondere da sola, consapevole che la situazione potrebbe evolvere verso uno scenario peggiore, e probabilmente lo farà.
E come superi la paura in quel momento?
Ci sono alcuni metodi infallibili: piccole azioni con un effetto chiaramente misurabile. È il miglior rimedio per la paura, e ogni volta si scopre che la situazione non è così disperata come poteva sembrare all’inizio. Se prendi una posizione di principio, se non fallisci nell’affrontare la sfida morale, se non fai finta che non stia succedendo niente o che tu sia impotente, ma invece capisci che sei in una situazione in cui la sfida morale è enorme, di cui tutti saranno chiamati a rispondere, allora non potrai rimanere solo un passeggero. Devi credere di poter fare qualcosa, compiere un atto che abbia qualche conseguenza misurabile.
Theodor Adorno, citando il drammaturgo Christian [Dietrich] Grabbe, disse una volta che solo la disperazione può salvarci. Oggi, i russi che sono addolorati da ciò che sta accadendo si accontentano di provare auto-recriminazione e vergogna; cercano di giustificarsi o scusarsi. Sono sentimenti comprensibili e le intenzioni sono buone, ma così non si arriva all’azione. Alla fine della fiera, questa non è una guerra che il popolo russo sta conducendo contro l’Ucraina. I russi non otterranno nulla da questa guerra, perderanno nel modo più mostruoso possibile, sarà un’immensa catastrofe per il paese – tutto ciò che otterremo sarà odio a livello planetario, un’economia distrutta, una società schiacciata e forse un esercito sconfitto.
E infine, perderemo quella base incrollabile di rispetto che storicamente ha suscitato la riverenza della gente di tutto il mondo: perderemo la nostra immagine di nazione liberatrice, di nazione eroica – la vincitrice della peggiore di tutte le guerre. Ed è per questo che dobbiamo fermare questa catastrofe, perché dobbiamo unirci agli ucraini e ai bielorussi. Le circostanze sono tali che gli ucraini stanno resistendo a modo loro, mentre bielorussi e russi devono trovare una strategia diversa. Una strategia che non impedisca loro di guardarsi negli occhi nel futuro.
C’è modo di capire cosa succederà nel prossimo futuro?
Immaginare il peggiore scenario possibile, tutte le possibili sanzioni e controsanzioni. Così ti semplifichi le cose perché eviti brutte sorprese. [Pensare in questo modo] ti impedisce di essere distratto dalla valanga di notizie in corso, ti permette di mantenere quella posizione di principio che hai elaborato in anticipo, e che ti dice cosa dovresti fare in una determinata situazione, dove sta la tua responsabilità morale.
È questo il principio in base al quale vivi?
Faccio del mio meglio. Questo è ciò che rende i principi principi: è impossibile seguirli alla lettera. Ma aiutano a tenerti a galla.
Tu però insegni. Hai avuto qualche problema causato dalla tua posizione morale – per esempio, dopo quella protesta in cui sei stato picchiato?
Non è la prima volta che occupo questa posizione, e sono stato così fortunato con le persone che mi circondano, con i miei colleghi, da non avere mai avuto problemi. Il che naturalmente non mi dà alcuna garanzia in questo nuovo mondo, dove le vecchie regole non varranno più.
Non valgono già più.
È ben probabile.
Si legge molte volte che la Russia ha un problema di memoria storica. È vero?
Ci sono problemi con la memoria storica ovunque – è il regalo che il XX secolo ha fatto a quasi tutte le società. Stiamo tutti ancora cercando di superare in qualche modo i nostri problemi di memoria.
C’è modo di prevedere cosa succederà alla nostra memoria collettiva quando tutto questo sarà finito?
Dipende da come finiranno le cose. Al momento, siamo abbastanza sull’orlo del precipizio – se non finiamo per liquidare il pianeta e riusciamo ad emergere, potremmo trovarci costretti a una rimessa in discussione totale.
Se escludiamo la possibilità che il male assoluto trionfi – se riusciamo ad andare oltre i sentimenti di offesa, rabbia e vendetta, oltre la convinzione che a contare sia solo la forza bruta – allora dopo si scoprirà di nuovo che molti di noi “non sapevano nulla”, che “tutto è stato deciso per conto nostro”, che stavamo solo “seguendo gli ordini”, che non eravamo “responsabili” di nulla, e così via.
Ma non è solo un problema della Russia, non dobbiamo fissarci sulla Russia e cadere nell’autoflagellazione. Tutto il mondo sta affrontando una sfida; questo fatto sta cominciando a essere chiaro a tutti. Le élite corrotte sono le stesse in tutto il mondo, pensano tutte solo a se stesse. E sì, la situazione attuale è che questa sfida proviene dalla Russia, e noi abbiamo un ruolo speciale.
So che può essere una domanda strana da fare a te in particolare, ma alla luce degli eventi del 27 febbraio, quanto è alta la probabilità di una guerra nucleare?
Qualche probabilità c’è. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di Putin, non la considererei una minaccia immediata o imminente. Per ora, è solo un atto avvenuto in parallelo ai colloqui – colloqui che sono indiscutibilmente decorativi e non reali – ma ad ogni modo, la dichiarazione sulle armi nucleari è più probabilmente una forma di ricatto destinata a creare una base per il negoziato.
Ma il fatto stesso che questa minaccia sia stata formulata, soprattutto in un contesto in cui Putin e la sua squadra hanno chiarito che non si fermeranno davanti a nulla per ottenere ciò che vogliono, pone seriamente la questione nucleare. Inoltre non dobbiamo dimenticare i pericoli dell’uso di armi nucleari tattiche.
Ho sempre pensato che gli esseri umani sono motivati fondamentalmente dall’istinto di sopravvivenza. Ma la decisione di usare armi nucleari è suicida – e sto usando un eufemismo.
Gli esseri umani sono creature interessanti. Molti pensatori e pensatrici hanno definito gli esseri umani proprio in base alla loro capacità di concepire la possibilità del suicidio. Qualunque ne sia il motivo, una persona è capace di dire: “Io dico no alla mia esistenza fisica”. Puoi essere motivato dalla sensazione che il proseguimento della tua vita sia diventato impossibile, ma puoi anche essere motivato dal desiderio di acquisire fama e prestigio – storicamente, cose del genere hanno effettivamente spinto le persone al suicidio.
Certo, una volta non avevamo il pulsante nucleare – ma cosa cambia, in fin dei conti? Quelli che commettono un suicidio nucleare sono, dopo tutto, sempre persone, il che significa che ne sono capaci.
Scusa, devo interrompere – sto ricevendo una chiamata da mia moglie, che quasi certamente è stata arrestata durante una protesta contro la guerra.
Fonte. Pubblicato originariamente il 2 marzo 2022. Traduzione di Tullio Viola dalla versione inglese di Maya Vinokour.
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Il discorso di Pablo Iglesias sulla guerra in Ucraina
“Io in questo voglio essere molto chiaro. Capisco qual è l’umore sociale. E’ chiaro a tutto il mondo che c’è un’invasione ingiustificabile della Russia in Ucraina, e quando si pone la domanda ‘hanno diritto gli ucraini a difendersi?’, la risposta naturale di chiunque abbia le migliori intenzioni è: ovvio che hanno diritto a difendersi. Ma quando si hanno responsabilità di governo, a volte bisogna essere abbastanza seri da dire alla gente la verità.
Vi racconto qualcosa di molto importante per il dibattito sull’invio di materiale offensivo alla resistenza ucraina annunciato oggi da Pedro Sánchez (il primo ministro), che si è contraddetto, perché due giorni fa non diceva la stessa cosa, sicuramente in risposta a un umore sociale molto chiaro.
Io ho amici militari, alcuni dei quali hanno esperienze di guerra. Gli ho chiesto se effettivamente questo materiale militare può bastare perché l’esercito ucraino o le milizie civili ucraine sconfiggano l’esercito russo. Mi hanno detto: assolutamente no, è impossibile. E’ impossibile, visti i rapporti di forza che ci sono tra esercito russo ed esercito ucraino, più milizie civili. E gli ho chiesto: qual è l’unica maniera di sconfiggere l’esercito russo? Sono stati altrettanto chiari: una missione militare internazionale guidata dagli USA con altri paesi NATO.
Questo è il dibattito che dobbiamo avere. Il dibattito non è su mandare o non mandare le armi, perché chi ne sa qualcosa è perfettamente cosciente del fatto che l’invio di armi non cambia questi rapporti di forza. Quello di cui si deve discutere è se siamo disposti ad entrare in guerra con la Russia. Attenzione: può anche darsi che ci sia una maggioranza di parlamentari che sono d’accordo, in questo caso dovremo fare questa guerra.
Ma allora bisogna lasciare che la gente discuta di quello di cui si deve discutere: di uno scontro mondiale con una potenza che ha armi nucleari, e non sappiamo come risponderanno altre potenze nucleari che in qualche modo ora sostengono la Russia, come la Cina o l’India. E dovremmo accettare nella migliore delle ipotesi che ci saranno cadaveri di giovani militari spagnoli che torneranno a casa in casse di legno; certo, coperti con la bandiera spagnola e con molte medaglie e titoli postumi.
Di questo si deve parlare. Io so che oggi è molto facile dire che i pacifisti sono codardi e che quelli che spiegano che questa guerra c’entra con il controllo dei mercati energetici sono delle merde o dei vigliacchi, o dire che la diplomazia è da codardi, quello che in fondo ha detto Borrell, cioè il capo della diplomazia europea. Io credo che in questo momento si deve dire la verità alla gente: che l’unica maniera di sconfiggere militarmente l’esercito russo sarebbe una missione guidata dagli USA con soldati spagnoli, francesi, tedeschi e di altri paesi NATO. Questo è il dibattito che dobbiamo aprire.
A questo punto, tutto il mio riconoscimento va alle persone che sotto una pressione mediatica enorme stanno dicendo la cosa più difficile: e cioè che si devono fare tutti gli sforzi per arrivare a una soluzione diplomatica – che è poi quello che sta dicendo il segretario generale dell’ONU. Non è né ingenuo né ‘buonista’ dire che si deve puntare sulla negoziazione e sul dialogo, perché il discorso qui non è mandare armi; il discorso è se dobbiamo accettare di entrare in guerra con una potenza nucleare.
C’è chi sostiene che sia comodo dire ‘no alla guerra’. Quello che è comodo è dire ‘sì alla guerra’ su twitter, negli editoriali, nei talk show televisivi, o da casa. Perché quelli che lo dicono non si metteranno un giubbotto antiproiettili, non prenderanno un’arma per andare a rischiare la vita in Ucraina. Io credo sia molto importante dire alla gente la verità; la verità è che questa situazione non si risolve inviando armi; si risolverebbe semmai con una missione militare, che implica entrare in una guerra mondiale nella quale ci sono potenze nucleari.
Per questo credo che in questo momento di enorme pressione mediatica, di enorme furore bellicista che ricorda lo spirito del 1914, bisogna dare risalto a quei coraggiosi che contro l’opinione di tutti stanno dicendo: diplomazia e dialogo. Che stanno dicendo che la guerra ha poco a che vedere con la democrazia, e che invece ha a che vedere con il controllo delle risorse naturali, delle risorse energetiche, in questo caso del gas; che ha a che vedere con la competizione geopolitica fra potenze, alle quali non frega niente della democrazia; che in questo momento ci sono molti venditori di armi senza vergogna, che stanno pensando a fare profitti con questo conflitto; e che oggi, quelli che sono in minoranza, che hanno il coraggio di dire ‘pace e diplomazia’, di fronte a chi cerca l’applauso facile dicendo che si deve inviare armi ma che non impugneranno mai un’arma con le loro mani e non si metteranno mai un giubbotto antiproiettile per combattere in territorio ucraino, hanno tutta la ragione. Questa minoranza che dice pace, diplomazia, e allineiamoci con il segretario generale dell’ONU.
Saranno giorni molto difficili, vedremo molte persone di sinistra che sono sempre state per il ‘no alla guerra’ dire che si devono mandare armi. Però si deve dire la verità alla gente: inviando armi non si cambiano i rapporti di forza. Quello di cui stiamo parlando è entrare in guerra con una potenza nucleare”.
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Quella bella parola così lontana
Mirco Pieralisi dal sito Comune info
Il soffocamento delle proteste pacifiste a Mosca ricorda la repressione contro la guerra in Vietnam, inclusa la strage nel campus della Kent University dell’Ohio, quando coloro che protestavano, da tanti erano considerati fratelli e sorelle e non c’era bisogno di nessuno che spiegasse la necessità di distinguere un popolo dal suo governo. Del resto parole/concetto come fraternizzazione avevano cominciato a cambiare lo sguardo sul mondo a molti e molte. Quella parola era stata l’incubo delle gerarchie militari nelle trincee della prima guerra mondiale, ma aveva acquisito un senso anche in tempo di pace. Per questo, anche in questi giorni possiamo imparare ad accogliere pensieri divergenti e a trasformare rabbia e terrore: si tratta, suggerisce Mirco Pieralisi, insegnante, di mettere in luce ogni episodio di fraternizzazione che rompe l’orizzonte di guerra – come quello raccontato da Mario Rigoni Stern – e “ogni incontro che a partire da sentimenti profondamente e universalmente umani, come il dolore e la paura, avvicini le persone più di quanto ogni potere esistente possa separarle…”
Guardarsi indietro è giusto e necessario, a volte persino pericoloso se è solo un pretesto per conservare inamovibili certezze. A volte però è un bene prezioso, quando ti accorgi che le radici di buone piante sono state sradicate o inquinate. Non avevo ancora compiuto 18 anni il giorno in cui vidi, nel maggio del 1970, a tutta pagina sul settimanale L’espresso le foto della strage nel campus della Kent University dell’Ohio. Jeffrey Miller, Allison Krause, Sandra Scheuer e William Schroeder, ragazze e ragazzi di 19 e vent’anni, erano stati uccisi dai proiettili della guardia nazionale durante una protesta contro la guerra in Vietnam. Non li salvò neanche il colore bianco della loro pelle, per il governo e le autorità militare erano solo traditori del loro paese. Ma per noi, che stavamo crescendo nel pieno dell’illusione di trovarci all’alba del ribaltamento del mondo, quelli erano nostri fratelli e sorelle e non c’era bisogno di nessuno che ci spiegasse la necessità di distinguere un popolo dal suo governo, anche quando quel governo era nato grazie al voto del suo popolo.
Mi è tornato in mente quell’episodio non solo vedendo le drammatiche immagini del soffocamento delle proteste pacifiste nel cuore di Mosca, ma anche leggendo e ascoltando quella nemmeno troppo latente ostilità che serpeggia nei confronti di donne e uomini russi che abitano o attraversano il nostro paese e che hanno trovato un contraltare (tra il tragico e il ridicolo) anche in alcune istituzioni più o meno autorevoli. Eppure io penso che sia necessario affrontare, con un atteggiamento aperto, senza autocensure, con sincerità e autentica voglia di capire, una discussione seria, ancora più seria quando è informale e svuotata di pregiudizi e luoghi comuni, con ogni persona provenga da quel paese, una discussione che per altro si svolge già in migliaia di famiglie e ambienti di lavoro in cui si incontrano e conoscono cittadini di ogni parte del mondo, in particolare in tutti quegli ambiti di vita in cui le donne costituiscono un deposito straordinario di esperienze e memoria storica.
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Il ricordo degli anni giovanili mi riporta a discussioni infinite con ragazzi e ragazze venute dal paese il cui esercito aveva invaso il Vietnam e sterminato con le sue bombe centinaia di migliaia di uomini, donne, bambine e bambini. In quelle discussioni io, “chiedevo conto” ai miei coetanei d’oltre oceano della loro posizione, scoprendo straordinarie affinità (ricordo un caro amico che sfilava vicino a me con la bandiera dei Vietcong), atteggiamenti fortemente critici nei confronti del loro governo, vera e sacrosanta paura di essere chiamati alle armi, punti di vista curiosamente, per me, “al di sopra delle parti”, e perfino qualche rarissimo simpatizzante della “guerra contro il pericolo comunista”. Incontri di pochi minuti o notti intere passate a discutere, anche negli anni successivi, mi hanno aperto la mente e hanno dato ancora più senso concreto alla mia crescente ostilità verso ogni forma di chiusura identitaria di tipo nazionale. Quella vecchia e bellissima parola che circolava già nell’800 e che era l’incubo delle gerarchie militari nelle trincee della prima guerra mondiale, fraternizzazione, acquisiva un senso anche in tempo di pace, ed è una parola che ho cercato di consegnare, quando insegnavo, alla memoria delle mie alunne e dei mie alunni ogni volta che abbiamo affrontato lo studio delle grandi guerre.
Per me aver conservato l’idea del conflitto sociale come momento potenziale di crescita di una società e al tempo stesso, essere arrivato al rifiuto dell’idea di annientamento del nemico, è frutto di quegli incontri lontani e di tanti altri che ne seguirono, attraverso contatti diretti tra persone e attraverso quella sterminata zona di “non confine” rappresentata dalla letteratura, dal cinema, dalla cultura in generale. Pensare che anche lontano dal fronte di guerra le ostilità debbano continuare erigendo muri e separazioni innaturali, il solo pensare questo, è un delitto nei confronti del domani di ogni essere umano. Anche quando riconosciamo, come in questi giorni, chi è l’aggredito e chi è l’aggressore e indipendentemente da premesse che richiamano responsabilità non solo russe ma, oserei dire, planetarie, anche quando chiediamo il cessate il fuoco e il ritorno a casa degli invasori, anche quando chiediamo, sempre troppo pochi, il ritiro di Israele dai territori palestinesi, anche quando tuoniamo, ancora più pochi, contro le atrocità dell’esercito turco nei confronti della popolazione curda, in queste come in altre circostanze dobbiamo mettere in luce, valorizzare, direi esaltare ogni episodio di fraternizzazione che ha rotto l’orizzonte di guerra e ogni incontro che a partire da sentimenti profondamente e universalmente umani, come il dolore e la paura, avvicini le persone più di quanto ogni potere esistente possa separarle.
Mirco Pieralisi, insegnante
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Elogio della diserzione
di Marco Arturi dal sito Comune.it
Parlano di distensione nello stesso momento in cui inviano armamenti in Ucraina. Appiattiscono tutto sulla dicotomia buoni/cattivi: la guerra è propaganda, pensiero unico, menzogna. Intanto, ripetono che l’invasione non ha spiegazioni. In questo quadro l’unica scelta possibile di pace si chiama diserzione. Che nel concreto significa non concedere deleghe in bianco a chi governa, dire no alle armi sempre e comunque, pretendere che le istituzioni internazionali diventino attori di pace. “Ci diranno, infine, che con i russi è impossibile comprendersi: gli risponderemo – scrive Marco Arturi – che nei giorni scorsi ne sono arrestati quasi tremila perché avevano deciso di dire no alla guerra. Persone che, nel luogo e nel momento in cui è più difficile farlo, hanno deciso di disertare…. Potremmo provare ad ascoltarli…”
Non è il momento di ignorare gli avvertimenti
non è il momento di fare piazza pulita
non dispiaciamoci per ciò che è stato
lasciando che il passato diventi il nostro destino
(Lou Reed, “There is no time“)
Dalle prime ore di giovedì 24 dicembre sentiamo ripetere che l’invasione russa dell’Ucraina non ha giustificazioni, non ha spiegazioni. Le cose non stanno così e non sarebbe una faccenda di poco conto, dal momento che capire perché accade quello che accade – un esercizio messo in pratica da pochi, per la verità – non farebbe male a nessuno e soprattutto eviterebbe rischi molto seri. Perché è anche per questo che in Occidente ci siamo scoperti in pochi giorni tutti abili e arruolati, pronti a sostenere in qualche modo le ragioni di un conflitto dagli esiti potenzialmente devastanti per l’intero pianeta.
L’arruolamento su larga scala dell’opinione pubblica è stato curato da governi che parlano di distensione nello stesso momento in cui inviano armamenti in Ucraina e da media embedded fin dal principio che hanno rinunciato a ogni pretesa di oggettività e di indipendenza. Ci sono un aggredito e un aggressore, non importa – anzi, per la narrazione non esiste – il perché; ci sono i buoni e i cattivi, anche se scavando un minimo si farebbe in fretta a capire che i buoni non sono degli stinchi di santo; poi ci sono i giusti, quelli quasi al di sopra delle parti, che saremmo noi. Noi occidentali, noi atlantici, noi europei, noi filoamericani. Il che è tutto dire.
Nonviolenza, guerra e capitalismo
di Enrico Euli al sito Comune .it
Politica istituzionale e grandi media non hanno dubbi quando si parla di guerra. Il dominio della violenza è un carro armato che schiaccia ogni cosa. Eppure è proprio in questo scenario che abbiamo bisogno di un pensiero divergente. Enrico Euli mette in discussione quel dominio: ricostruisce i quattro assi intorno ai quali far crescere la cultura politica della nonviolenza prima di una guerra e cosa intima quella cultura quando la guerra è scoppiata, mostra come l’Occidente – dopo averlo usato – ha abbandonato il popolo ucraino e, soprattutto, ricorda che la guerra non è un evento ma un sistema disegnato dal capitalismo
Una visione nonviolenta presupporrebbe che, per evitare la guerra, si debba agire intensamente su quattro direttive: sostegno ai movimenti democratici, libertari, antiautocratici (alternative politiche); meno dipendenza e più autonomia energetica (alternative energetiche); ridefinizione delle istituzioni internazionali che regolano i mercati globali e i conflitti internazionali (alternative diplomatiche); costituzione di forze di interposizione civile non armata o di polizia internazionale armata ma con chiare regole d’ingaggio (alternative di difesa realmente difensiva). Tutti possiamo capire che, senza lavorare su questi livelli – ed è evidente che non lo si fa, anzi si fa esattamente il contrario – la possibilità o meno di una guerra sarà sempre lasciata alla discrezione dei potenti e sostanzialmente fuori controllo. Tutto questo andrebbe fatto prima che la guerra scoppi.
Ma, dopo che la guerra scoppia, la teoria nonviolenta ci intima di non opporre una controviolenza armata, ma di lasciarsi invadere, arrendersi e tornare a trattare, immediatamente. Ancor più in situazioni di disparità di forze conclamata, come è questa, non ha senso far scontrare eserciti sul campo, se davvero si vuole salvare il proprio paese dalla distruzione e ridurre il danno (che diviene l’unico obiettivo “patriottico” praticabile, al di là delle retoriche nazionaliste).
L’unica possibilità, per chi non vuole rinunciare alle armi, è la guerra asimmetrica: organizzare la guerriglia, per rendere più costosa possibile l’occupazione avvenuta, come l’Urss e gli Usa hanno già sperimentato in Afghanistan e Napoleone nella stessa Russia.
Ma sarebbe possibile e auspicabile organizzare la lotta contro gli occupanti anche in forme non armate (boicottaggi, sabotaggi…).
Non mancano le idee, le esperienze storiche e gli esperimenti su tutti questi piani, abbiamo organizzato innumerevoli convegni e seminari, scritto milioni di libri ed articoli, ma… solo la violenza continua a vincere e a dimostrarsi forte, efficace, invincibile. Non ci siamo.
Competizione senza fine
E qui si arriva all’oggi.
Ora che ci si straccia le vesti contro il mostro russo. Ma chi e quando ha saltato e fatto saltare qualunque regola di diritto internazionale nei decenni scorsi? Chi continua a blaterare di “America first”? Chi ha permesso a Putin (e ad Assad, ad Hariri, a Lukashenko, etc. etc.) di restare in sella, nonostante i movimenti di opposizione? Chi ha accresciuto i suoi rapporti di dipendenza economica ed energetica dalla Russia, succhiando senza remore denaro dai suoi oligarchi e gas dalle sue pipelines? La Gazprom è il primo sponsor della Champions league e pensavamo che non avrebbe fatto goal nelle nostre porte? Pecunia non olet, anche quando malamente olet? Abbiamo fatto i furbi, pur di non realizzare a tempo debito la transizione verso le energie rinnovabili, sperando di non pagare dazio. Ma la storia presenta sempre il conto. Ci siamo, è il momento di pagarlo.
Quando parliamo di sovranità degli stati e di autodeterminazione dei popoli, non dovremmo scordarci che la guerra guerreggiata è soltanto l’ultima opzione per condizionarle/eliminarle (sempre che siano ancora possibili e attuabili nel contesto odierno). Sappiamo che è possibile farlo attraverso il debito (vedi Grecia, per fare un esempio europeo recente, ma potremmo inserire tutti i paesi ‘in via di sviluppo’ (del debito, non di altro). Oppure attraverso il finanziamento massiccio e l’infiltrazione coperta dei movimenti d’opposizione interna al fine di generare un cambio di regime (vedi la caduta del regime filorusso in Ucraina nel 2014, sostituito da un governo filo-occidentale). Oppure attraverso la globalizzazione dei mercati e la delocalizzazione delle produzioni, distruggendo le economie nazionali e favorendone la dismissione. Solo se questi primi tre stadi – che non consideriamo “guerra”, ma che ottengono gli stessi risultati in un clima di competizione senza fine, che chiamiamo capitalismo e che è soltanto la prosecuzione della guerra con altre armi – non funzionano, si arriva alla guerra aperta.
Putin già non aveva digerito il cambio di regime che ha portato all’elezione dell’ex comico Zelensky; sembrava essersi accontentato degli accordi di Minsk, che però non sono stati implementati e realizzati a causa del boicottaggio ucraino; per di più l’Ucraina aspira a entrare nella Nato e a impiantare sistemi d’armamento al confine russo, ipotesi informalmente esclusa negli accordi che si erano succeduti alla dissoluzione dell’Urss. Da qui la sindrome d’accerchiamento (ma se gli Usa si trovassero circondati da armamenti nemici in Messico o a Cuba, non reagirebbero come nei giorni del conflitto tra Kennedy e Kruscev?).
Perché, in una trattativa, facciamo così fatica a riconoscere le ragioni possibili dell’altro? Perché una vera trattativa non la si vuole fare e non c’è mai stata.
Da qui la guerra come unica opzione restante: che non era inevitabile, ma che inevitabilmente lo diventa.
Cosa accade quando arriva la guerra?
Ma poi che succede se si arriva alla guerra? Che ci si stupisce, come se la grande illusione di un mondo pacificato dai mercati globalizzati e dall’interconnessione digitale, riunificato dalla pandemia, fosse vera e non solo un miraggio nel deserto del marketing politico. Che ci si affretta, come sempre, a stabilire che la colpa sia solo dell’altra parte, quella che la inizia di fatto.
Che dopo virologi, in tv, ora saranno i generali e i geostrateghi a imbottirci la testa con minacce, rimedi e previsioni. Da Bassetti a Stoltenberg, il passo è breve. La differenza è che sulla guerra, con Draghi, ci sta anche la Meloni, e la perfetta unità della nazione è finalmente compiuta.
E che l’Ucraina, nella retorica di questi giorni, diventi non più solo la terra d’origine delle badanti, come è stata sinora per tutti noi, ma giunge nientepopodimeno “al cuore dell’Europa”.
C’è da crederci?
Pensavo che la Nato sarebbe tornato indietro di trent’anni, alla guerra in Jugoslavia scatenata contro i serbi, i mostri di allora. É sempre possibile che riaccada: oggi la negano e la neghiamo, per rassicurarci, come hanno fatto gli ucraini sino a poche ore prima dell’invasione. Ma, almeno al momento, sembrerebbe che la Nato stia scegliendo di tornare indietro addirittura di sessant’anni: a una rinnovata, infinita guerra fredda, a una nuova cortina di ferro tra Ovest ed Est con la differenza però che oggi, con la Russia, sta anche la Cina. Che la guerra (nucleare) insomma si minacci, ma non si faccia mai.
L’occidente, dopo aver usato i curdi, li ha traditi. Ora sta per toccare agli ucraini: li abbiamo lasciati a provocare l’orso russo lancia in resta, ma mostreremo presto quanto valgono i proclami e le promesse di ieri. Loro staranno lì a morire, a farsi bombardare, a fuggire, mentre noi qui – ben protetti – faremo riunioni e inventeremo sanzioni (che non colpiscano noi). L’Occidente sarà pure democratico, ma il suo bluff sta venendo fuori. Putin ha dimostrato di essere un dittatore, ma un dittatore che non bluffa. Questa dolorosa differenza peserà enormemente (soprattutto sugli ucraini, ma anche su tutti noi) nel prossimo futuro.
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Torniamo in piazza per la pace
La Rete Italiana Pace e Disarmo
Condanna ferma dell’aggressione militare Russa e richiesta di uno stop immediato delle ostilità: il primo obiettivo deve essere la protezione umanitaria dei civili. Necessarie poi iniziative di demilitarizzazione e disarmo, in particolare nucleare La Rete Italiana Pace e Disarmo chiede alle proprie organizzazioni di partecipare alle iniziative di mobilitazione già convocate in tutta Italia e invita in particolare alla mobilitazione prevista a Roma in Piazza SS. Apostoli alle 11 di sabato 26 febbraio
La Rete Italiana Pace e Disarmo e le sue Organizzazioni condannano in modo fermo l’azione militare iniziata da questa notte in Ucraina da parte della Federazione Russa. Ancora una volta si sceglie la follia della guerra, i cui impatti più devastanti ricadranno sui civili e le popolazioni inermi, per colpa di sete di potere, di rivendicazioni nazionaliste, di interessi particolari soprattutto legati al profitto armato.
La nostra Rete esprime la massima solidarietà alle popolazioni coinvolte e sostiene tutti gli sforzi della società civile pacifista in Ucraina e Russia per arrivare ad una cessazione immediata delle ostilità e poi intraprendere una strada di vera Pace e riconciliazione.
Alle Istituzioni internazionali, in particolare all’Italia e all’Unione Europea, chiediamo di:
- Prodigarsi per una cessazione degli scontri con tutti i mezzi della diplomazia e della pressione internazionale, con principi di neutralità attiva ed evitando qualsiasi pensiero di avventure militari insensate
- Chiedere alla Russia il ritiro delle proprie forze militari da tutto il territorio ucraino e la revoca immediata del riconoscimento dell’indipendenza delle Repubbliche del Donbass
- Attivarsi per garantire un passaggio sicuro alle agenzie internazionali e alle organizzazioni non governative al fine di garantire assistenza umanitaria alla popolazione coinvolta dal conflitto
- Chiedere il riconoscimento da parte dell’Ucraina dell’autonomia del Donbass prevista dagli accordi di Minsk ma mai attuata, il rispetto della popolazione russofona, la cessazione dei bombardamenti in Donbass, lo scioglimento delle milizie di matrice nazista
- Una volta arrivati al cessate il fuoco prodigarsi per una conseguente de-escalation della crisi nel pieno rispetto del diritto internazionale, affidando alle Nazioni Unite il compito di gestire e risolvere i conflitti tra Stati con gli strumenti della diplomazia, del dialogo, della cooperazione, del diritto internazionale
- Cessare qualsiasi tipo di ingerenza indebita nella vita interna dell’Ucraina
- Favorire l’avvio di trattative per un sistema di reciproca sicurezza che garantisca sia l’UE che la Federazione Russa.
Una volta cessati gli scontri la soluzione per una vera strada di Pace non potrà comunque essere il militarismo, ma dovrà partire dal coinvolgimento democratico e da scelte forti di demilitarizzazione e disarmo. In queste ore la Rete Italiana Pace e Disarmo ha elaborato analisi e proposte concrete che mette disposizione di tutta la società civile in un Documento che possa servire come base di riflessione e di pace che vada oltre l’emergenza. In particolare nel conflitto in Ucraina si evidenzia il grave pericolo di utilizzo delle armi nucleari, con conseguenze che sarebbero devastanti per tutto il mondo.
In tal senso la Rete chiede che:
- tutte le parti coinvolte devono impegnarsi a negoziare un nuovo Trattato sulle forze convenzionali in Europa e smilitarizzare l’Europa attraverso il disarmo, le ispezioni, ecc.
- tutte le parti coinvolte non devono impegnarsi in attacchi cibernetici, specialmente contro infrastrutture critiche che colpiscono la vita dei civili. Gli Stati e la società civile devono perseguire in buona fede un accordo internazionale che proibisca gli attacchi informatici.
- tutte le parti interessate devono intraprendere azioni urgenti per prevenire la guerra nucleare, ora più vicina visto il crollo del Trattato sulle forze nucleari a medio raggio, accordandosi per non schierare missili a medio raggio in Europa o nella Russia occidentale.
- gli Stati Uniti e la Russia hanno anche bisogno di concludere nuovi accordi che raggiungano ulteriori tagli verificabili nelle armi nucleari strategiche e non strategiche e sulle limitazioni delle difese missilistiche a lungo raggio, prima che il nuovo trattato di riduzione delle armi strategiche (New START) scada all’inizio del 2026.
- gli Stati Uniti devono ritirare le loro armi nucleari di stanza nei paesi membri della NATO e la Russia deve ritirare le sue armi nucleari tattiche dalle basi vicino al suo confine occidentale.
- la NATO deve rinunciare alle armi nucleari e denuclearizzare la sua dottrina politica così come la Russia e gli Stati Uniti (e tutti gli altri Stati dotati di armi nucleari) devono porre fine ai loro programmi di modernizzazione delle armi nucleari. Gli Stati Uniti, la Russia, l’Ucraina e tutti i membri della NATO devono aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari.
Per poter rilanciare queste richieste la Rete Italiana Pace e Disarmo chiede alle proprie organizzazioni e a tutti i loro aderenti e sostenitori di partecipare attivamente alle iniziative di mobilitazione già previste nei prossimi giorni nelle città di tutta Italia e di promuoverne di nuove, dando in particolare appuntamento alla manifestazione convocata a Roma in Piazza SS. Apostoli per le ore 11 di sabato 26 febbraio 2022.
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CRISI AMBIENTALE E SCANDALO DELLA GUERRA
di Alex Zanotelli
Viviamo un momento drammatico della storia umana. Siamo sotto la minaccia dell’ “inverno nucleare” e dell’ “ estate incandescente”! La prima provocata da una guerra nucleare e la seconda dalla paurosa crisi ambientale. In questo momento, per la crisi Ucraina, siamo terrorizzati dalla minaccia di una guerra nucleare.
Tutto questo è il frutto amaro di una folle corsa mondiale al riarmo, soprattutto atomico. Stiamo infatti militarizzando il cielo e la terra. Il cielo è diventato anch’esso teatro di scontro. L’uomo più ricco della terra, Elon Musk, ha già inviato nello spazio 1.900 satelliti, ma ha già intenzione di spedirne altri 42.000. La Cina lo ha già accusato di spionaggio a favore degli USA e ha testato il suo razzo ipersonico che elude ogni difesa. Siamo ormai alle ‘star wars’ (le guerre stellari), come le chiamava Reagan. Ma non contenti di militarizzare il cielo, stiamo supermilitarizzando il Pianeta Terra, che è diventato una discarica di armi (non dimentichiamo che le armi sono, insieme allo stile di vita di pochi, la causa del disastro ambientale.)
Nel 2021 la spesa militare mondiale si aggira sui duemila miliardi di dollari (nel 2020 eravamo a 1.981 miliardi!) Quasi metà di queste assurde spese sono da attribuirsi a USA/NATO, seguiti a grande distanza da Russia e Cina. E questo riarmo è contagioso. La notevole militarizzazione della Cina, per esempio, spinge ora le nazioni del Pacifico: Giappone, Indonesia, Corea del Sud, Malesia e Taiwan a fare altrettanto. Ma anche l’Africa è sempre più militarizzata. Nel 2020 le spese per le armi hanno superato i 43 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale nei paesi del Sahel. Ma ancora più agghiacciante è la corsa al riarmo nucleare, da parte delle grandi potenze, soprattutto USA, Russia e Cina. Gli USA, già con l’amministrazione Obama, avevano stanziato mille miliardi di dollari per modernizzare il loro armamentario atomico. Così ora abbiamo le nuove e più micidiali bombe atomiche, B61-12 che arriveranno presto anche in Italia per rimpiazzare una settantina di vecchie B61. La Cina, che ha oggi circa 200 testate nucleari, vuole entro il 2030, arrivare a circa mille. Gli USA ne hanno già pronte al lancio 3.750. Il nuovo accordo militare tra USA, Gran Bretagna e Australia (AUKS) per la difesa della zona del Pacifico, incrementerà questa corsa al riarmo nucleare. Infatti gli USA hanno già venduto all’Australia i ‘sottomarini atomici’. Lo scontro fra USA /NATO e la Russia sull’Ucraina ha già portato la Russia a siglare un’alleanza con la Cina. E siamo di ritorno ai blocchi Est-Ovest, alla Guerra Fredda e al nuovo riarmo mondiale. Infatti gli scienziati atomici hanno già posto le lancette dell’ “Orologio dell’Apocalisse” a 100 secondi dall’inverno nucleare.
E il nostro paese partecipa allegramente a questa corsa al riarmo. Lo scorso anno per armare l’Italia, il governo Draghi ha investito in armi circa trenta miliardi di euro. Non solo, il Ministero della Difesa (Guerini) e dello Sviluppo Economico (Giorgetti) hanno presentato progetti per trenta miliardi presi dal Recovery Fund. Per di più le Forze Armate italiane stanno armando i droni Reaper, i sottomarini, le fregate FREMM con i missili Cruise, permettendole così di condurre missioni di attacco in qualsiasi parte del mondo. Così i nostri droni passeranno da semplici vedette a killer di precisione. (in barba alla Costituzione italiana!) Non solo, ma il Ministro Guerini ha trasformato il Ministero della Difesa nel Ministero della Guerra facendo del suo dicastero un agente di commercio dell’industria bellica nazionale. Le grandi aziende belliche, Leonardo (ex-Finmeccanica) e Fincantieri (a partecipazione statale) sono in piena attività.
L’Italia vende armi a tutti: l’importante è fare affari. Sta perfino vendendo armi all’Egitto del dittatore Al-Sisi: un giro di affari del valore di 9-10 miliardi di dollari (in barba a Giulio Regeni e a Patrick Zaki!). Inoltre il governo italiano sta finanziando sempre più missioni militari con lo pseudonimo di ‘missioni di pace’. L’esempio più clamoroso è la missione in Afghanistan: vent’anni di guerra a fianco della NATO che ci è costata sette miliardi di dollari e agli alleati tremila miliardi di dollari, per produrre quella vergognosa ritirata(altro che esportare democrazia!). Non contenta, l’Italia ha accettato il comando del contingente NATO in Iraq, dopo che abbiamo distrutto quel paese, con una spaventosa guerra costruita su bugie! Ora l’Italia si sta cimentando con le missioni in Africa. In Niger sta costruendo una base militare con la presenza di oltre duecento militari ed ha inviato soldati in Mali per partecipare all’operazione anti-jihadista Takuba (mentre la Francia si ritira!). Invece di soldati e di armi, la disperata popolazione del Sahel ha bisogno di aiuto per risollevarsi, non di armi. E tutto questo sta avvenendo nell’indifferenza e nel silenzio del popolo italiano. E’ scandaloso il silenzio del Parlamento davanti a un governo Draghi che investe sempre più in armi e taglia i fondi alla sanità pubblica e alla scuola. In un tale contesto non dovremmo meravigliarci se la crisi ucraina in Europa o su Taiwan in Asia, potrebbero farci precipitare in una guerra nucleare con la Russia o con la Cina. Basta un incidente ed è la fine. E’ questa militarizzazione mondiale che ci porterà nel baratro dell’inverno nucleare!
“La pandemia è ancora in pieno corso- ha detto recentemente Papa Francesco- la crisi sociale ed economica è ancora pesante, specialmente per i più poveri. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo.”
Alex Zanotelli