INDIFFERENZA E’ COMPLICITA’

GIORNATA DEL RICORDO SMEMORATO

La Memoria collettiva e il rischio della distorsione del passato. Gobetti: “La pacificazione? Non si fa parificando le responsabilità”

Nei giorni della Giornata della Memoria e del Giorno del Ricordo merita una riflessione aggiuntiva il pericolo di una ricostruzione del passato attraverso le lenti del presente. Così l’uso strumentale e politico dei massacri nelle aree giuliane e dalmate e la loro equiparazione alla Shoah – senza sminuire in nessun modo i crimini che avvennero sul confine orientale – può nascondere retoriche che appiattiscono la complessità dei fenomeni. L’autore di “E allora le foibe” a ilfattoquotidiano.it: “Il Giorno del Ricordo? Singolare che prendano le distanze le forze eredi della sinistra quando per i crimini fascisti in Jugoslavia, Etiopia, Libia e Italia non c’è la stessa cosa da parte della destra”

“La Storia comincia laddove termina e si decompone la memoria sociale permettendo il fiorire di un punto di vista etico, dato dall’approccio da osservatore esterno e analitico. (…) La memoria invece implica lo sguardo di chi dentro al processo in questione ci sta, il punto di vista è emico e la percezione che si ha delle cose diventa più rilevante dei fatti in sé”. Con queste parole il filosofo francese Maurice Halbwachs parla della costruzione della memoria collettiva partendo dalla Storia ma anche in rapporto al rischio di perdere progressivamente la relazione con il fatto storico. La centralità che assume la percezione, ancora più che il dato, ci consente anche di riflettere su alcuni nodi come quello della “filiazione inversa” che allontana dalla consapevolezza delle radici storiche del presente: i figli non originano più dai padri, ma sono i padri a essere generati e modellati dai figli, che ricostruiscono il passato attraverso le lenti del presente. Da una parte questo ragionamento sembra inevitabile, poiché comunque la lettura di ogni processo lontano è e non può non essere influenzata anche dalle categorie del presente. C’è differenza però tra la consapevolezza (e magari il riconoscimento critico) di questa influenza del presente sulle analisi storiche e la distorsione del passato. Al di là delle interpretazioni differenti che si danno di tanti fenomeni, il discrimine sta forse proprio nell’attenzione ai fatti e, quindi, alle fonti storiografiche. A proposito di rapporto tra Storia e Memoria è interessante pensare alle due date, molto ravvicinate, che le commemorazioni pubbliche sottolineano in questi giorni: la Giornata della Memoria del 27 gennaio e il Giorno del Ricordo del 10 febbraio.

La prima, come noto, ricorda la liberazione – avvenuta il 27 gennaio 1945 – dei detenuti superstiti del lager di Auschwitz, per effetto dell’arrivo delle truppe sovietiche guidate dal maresciallo Ivan Konev. Un fatto che consentì di rivelare per la prima volta in modo compiuto, anche e soprattutto grazie alle testimonianze, l’orrore della deportazione e dei lager. La seconda data invece è l’anniversario del Trattato di pace di Parigi che, nel 1947, sancì la fine della Seconda guerra mondiale. Dal 2004 però, nel nostro Paese, è diventata la data in cui si ricordano le vittime delle foibe sul confine orientale e l’esodo giuliano-dalmata.

Al di là della dubbia decisione di assumere come data commemorativa la stessa che ha posto termine a uno dei peggiori conflitti globali, è rilevante notare la scelta di istituire il Giorno del Ricordo così a ridosso del Giorno della Memoria in relazione a una implicita tendenza all’assimilazione che si lega anche a una ripresa di terminologie come “genocidio” e “pulizia etnica”. Questa tendenza risponde in effetti all’affermarsi di una narrazione sempre più ricorrente nell’uso politico, che propende verso un’equiparazione tre le foibe e l’Olocausto. In questo passaggio si nascondono retoriche che appiattiscono la complessità dei fenomeni e che portano ad additare come negazionista chiunque tenti di argomentare lo scarso senso storico di tale paragone. Ci aveva provato tra gli altri il professor Alessandro Barbero e le reazioni furono vibranti.

Non di meno, è singolare pensare che, mentre di fatto il 27 gennaio ricordiamo specificatamente i massacri compiuti in un campo di concentramento nazista, non è esistito alcuno spazio nel discorso pubblico per i campi di concentramento italiani. Uno dei più cruenti fu quello instaurato dal regime d’occupazione italiano a Campora d’Arbe (in Dalmazia) nel 1942: in un campo gestito esclusivamente da italiani vennero imprigionati in condizioni disumane migliaia di civili slavi, tra cui donne, uomini e bambini delle zone occupate della Slovenia e anche alcuni civili della Venezia Giulia. Tra gli internati risultano inoltre circa 3.500 civili ebreisfollati dai territori della Croazia. Il campo fu successivamente occupato dalle forze partigiane di Tito, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e molti degli ebrei liberati combatterono nell’Eplj, l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, contro l’Asse. Pensare a questo episodio, ampliando le riflessioni sui campi di concentramento italiani e sui conflitti che contrapposero le forze dell’Asse e quella della Resistenza anche sui territori di confine orientale, colloca il ragionamento sulle foibe in un contesto complesso che non ne avalla le retoriche di assoluta demonizzazione.

Ciò che più stride nel dibattito e nei vuoti che implica è soprattutto all’interno del momento storico e politico contemporaneo che, da un po’, vede polarizzarsi il conflitto con le radici antifasciste del nostro Paese – in parte già fragili in partenza, considerate le tante continuità politico-istituzionali e culturali tra regime e Repubblica. Riprendendo Halbwachs e il discorso sui rischi della distorsione delle percezioni collettive, può apparire perciò rilevante la capacità di riportare l’analisi verso i contesti, affrontando la complessità delle vicende storiche che, per quanto appaiano distanti, influenzano le nostre cornici culturali e la contemporaneità politica.

È quindi forse importante anche e proprio oggi, svelare alcune di queste contraddizioni, senza niente togliere all’importanza di ricordare il dramma dei campi di concentramento nazisti – che non furono gli unici – e al contempo senza volere in nessun modo sminuire crimini e tragedie che si verificarono sul confine orientale. Si vuole piuttosto cercare di ribadire l’importanza di coltivare la memoria antifascista, all’interno della quale si radica il senso profondo della stessa Giornata della Memoria e, in qualche modo, un approccio critico al Giorno del Ricordo, ci porta proprio in questa direzione.

Lo storico Eric Gobetti è autore di E allora le foibe?, (136 pp, 13 euro, alla settima ristampa) che fa parte della collana di Laterza Fact Checking, diretta da un altro storico, Carlo Greppi. Il libro di Gobetti aiuta a indagare questi fenomeni attraverso una scrupolosa verifica dei fatti, permettendoci di interrogare il rapporto tra ricostruzione delle storiecostruzione della memoriauso politico.

La Memoria collettiva e il rischio della distorsione del passato. Gobetti: “La pacificazione? Non si fa parificando le responsabilità”

Nei giorni della Giornata della Memoria e del Giorno del Ricordo merita una riflessione aggiuntiva il pericolo di una ricostruzione del passato attraverso le lenti del presente. Così l’uso strumentale e politico dei massacri nelle aree giuliane e dalmate e la loro equiparazione alla Shoah – senza sminuire in nessun modo i crimini che avvennero sul confine orientale – può nascondere retoriche che appiattiscono la complessità dei fenomeni. L’autore di “E allora le foibe” a ilfattoquotidiano.it: “Il Giorno del Ricordo? Singolare che prendano le distanze le forze eredi della sinistra quando per i crimini fascisti in Jugoslavia, Etiopia, Libia e Italia non c’è la stessa cosa da parte della destra”

“La Storia comincia laddove termina e si decompone la memoria sociale permettendo il fiorire di un punto di vista etico, dato dall’approccio da osservatore esterno e analitico. (…) La memoria invece implica lo sguardo di chi dentro al processo in questione ci sta, il punto di vista è emico e la percezione che si ha delle cose diventa più rilevante dei fatti in sé”. Con queste parole il filosofo francese Maurice Halbwachs parla della costruzione della memoria collettiva partendo dalla Storia ma anche in rapporto al rischio di perdere progressivamente la relazione con il fatto storico. La centralità che assume la percezione, ancora più che il dato, ci consente anche di riflettere su alcuni nodi come quello della “filiazione inversa” che allontana dalla consapevolezza delle radici storiche del presente: i figli non originano più dai padri, ma sono i padri a essere generati e modellati dai figli, che ricostruiscono il passato attraverso le lenti del presente. Da una parte questo ragionamento sembra inevitabile, poiché comunque la lettura di ogni processo lontano è e non può non essere influenzata anche dalle categorie del presente. C’è differenza però tra la consapevolezza (e magari il riconoscimento critico) di questa influenza del presente sulle analisi storiche e la distorsione del passato. Al di là delle interpretazioni differenti che si danno di tanti fenomeni, il discrimine sta forse proprio nell’attenzione ai fatti e, quindi, alle fonti storiografiche. A proposito di rapporto tra Storia e Memoria è interessante pensare alle due date, molto ravvicinate, che le commemorazioni pubbliche sottolineano in questi giorni: la Giornata della Memoria del 27 gennaio e il Giorno del Ricordo del 10 febbraio.

La prima, come noto, ricorda la liberazione – avvenuta il 27 gennaio 1945 – dei detenuti superstiti del lager di Auschwitz, per effetto dell’arrivo delle truppe sovietiche guidate dal maresciallo Ivan Konev. Un fatto che consentì di rivelare per la prima volta in modo compiuto, anche e soprattutto grazie alle testimonianze, l’orrore della deportazione e dei lager. La seconda data invece è l’anniversario del Trattato di pace di Parigi che, nel 1947, sancì la fine della Seconda guerra mondiale. Dal 2004 però, nel nostro Paese, è diventata la data in cui si ricordano le vittime delle foibe sul confine orientale e l’esodo giuliano-dalmata.

Al di là della dubbia decisione di assumere come data commemorativa la stessa che ha posto termine a uno dei peggiori conflitti globali, è rilevante notare la scelta di istituire il Giorno del Ricordo così a ridosso del Giorno della Memoria in relazione a una implicita tendenza all’assimilazione che si lega anche a una ripresa di terminologie come “genocidio” e “pulizia etnica”. Questa tendenza risponde in effetti all’affermarsi di una narrazione sempre più ricorrente nell’uso politico, che propende verso un’equiparazione tre le foibe e l’Olocausto. In questo passaggio si nascondono retoriche che appiattiscono la complessità dei fenomeni e che portano ad additare come negazionista chiunque tenti di argomentare lo scarso senso storico di tale paragone. Ci aveva provato tra gli altri il professor Alessandro Barbero e le reazioni furono vibranti.

Non di meno, è singolare pensare che, mentre di fatto il 27 gennaio ricordiamo specificatamente i massacri compiuti in un campo di concentramento nazista, non è esistito alcuno spazio nel discorso pubblico per i campi di concentramento italiani. Uno dei più cruenti fu quello instaurato dal regime d’occupazione italiano a Campora d’Arbe (in Dalmazia) nel 1942: in un campo gestito esclusivamente da italiani vennero imprigionati in condizioni disumane migliaia di civili slavi, tra cui donne, uomini e bambini delle zone occupate della Slovenia e anche alcuni civili della Venezia Giulia. Tra gli internati risultano inoltre circa 3.500 civili ebreisfollati dai territori della Croazia. Il campo fu successivamente occupato dalle forze partigiane di Tito, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e molti degli ebrei liberati combatterono nell’Eplj, l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, contro l’Asse. Pensare a questo episodio, ampliando le riflessioni sui campi di concentramento italiani e sui conflitti che contrapposero le forze dell’Asse e quella della Resistenza anche sui territori di confine orientale, colloca il ragionamento sulle foibe in un contesto complesso che non ne avalla le retoriche di assoluta demonizzazione.

Ciò che più stride nel dibattito e nei vuoti che implica è soprattutto all’interno del momento storico e politico contemporaneo che, da un po’, vede polarizzarsi il conflitto con le radici antifasciste del nostro Paese – in parte già fragili in partenza, considerate le tante continuità politico-istituzionali e culturali tra regime e Repubblica. Riprendendo Halbwachs e il discorso sui rischi della distorsione delle percezioni collettive, può apparire perciò rilevante la capacità di riportare l’analisi verso i contesti, affrontando la complessità delle vicende storiche che, per quanto appaiano distanti, influenzano le nostre cornici culturali e la contemporaneità politica.

È quindi forse importante anche e proprio oggi, svelare alcune di queste contraddizioni, senza niente togliere all’importanza di ricordare il dramma dei campi di concentramento nazisti – che non furono gli unici – e al contempo senza volere in nessun modo sminuire crimini e tragedie che si verificarono sul confine orientale. Si vuole piuttosto cercare di ribadire l’importanza di coltivare la memoria antifascista, all’interno della quale si radica il senso profondo della stessa Giornata della Memoria e, in qualche modo, un approccio critico al Giorno del Ricordo, ci porta proprio in questa direzione.

Lo storico Eric Gobetti è autore di E allora le foibe?, (136 pp, 13 euro, alla settima ristampa) che fa parte della collana di Laterza Fact Checking, diretta da un altro storico, Carlo Greppi. Il libro di Gobetti aiuta a indagare questi fenomeni attraverso una scrupolosa verifica dei fatti, permettendoci di interrogare il rapporto tra ricostruzione delle storiecostruzione della memoriauso politico.

Gobetti delinea il quadro articolato del riferimento geografico e della presunta “italianità” di chi abitava quei luoghi. Qui vi era infatti una grande commistione di popolazioni che hanno vissuto assieme per secoli, mescolandosi e creando identità comuni locali, entrate poi in crisi dalla fine della Grande Guerra, quando queste zone entrarono per la prima volta a far parte di uno Stato nazione, il Regno d’Italia. Le costruzioni propagandiste su cui giocò il regime fascista restano storicamente poco fondate.

Lo storico affronta poi la questione della “pulizia etnica”: sottolinea come le violenze commesse dai partigiani jugoslavi non avessero logiche “etniche”, ma piuttosto politiche, decostruendo di per sé i tentativi di riferimento a un “genocidio”. Infatti, se si ragiona rispetto all’appartenenza “etnica”, si può notare che gli italiani stavano su entrambi i fronti, poiché molti italiani combatterono a fianco delle forze della Resistenza slava (nella primavera del 1944 si stima che fossero tra i 20mila e i 30mila i partigiani integrati nell’esercito jugoslavo). Inoltre le vittime delle violenze avvenute dopo l’8 settembre erano principalmente rappresentanti dello Stato italiano, delle istituzioni del governo fascista, colpite non perché italiane ma perché fasciste. Occorre poi ricordare che i fascisti contribuirono a enormi violenze sul territorio, costruendo campi di concentramento che servivano a recludere partigiani e civili e appoggiando i movimenti collaborazionisti come gli ustascia croati e i cetnici serbi. E infine l’esodo. La narrazione legata a una volontà di pacificazione nazionale ci parla di 300mila italiani costretti a lasciare le proprie abitazioni per fuggire oltre confine. Ma un’approfondita disamina delle fonti sottolineata da Gobetti porta a collocare questi flussi in un arco temporale di 15 anni, dal 1941 al 1956. In particolare, è del 1954 la firma del Memorandum che prevede il passaggio di Trieste definitivamente all’Italia ed è dal 1954 al 1956 che un gran numero di profughi abbandona questi territori. Questi dati scardinano l’idea di un “improvviso” esodo forzato.

L’operazione di Gobetti, dunque, non è negazionismo, ma piuttosto un’attenta disamina dei fatti, per restituire complessità storica alla vicenda e dignità umana alle vittime, oltre ogni uso strumentale. Coltivare e rielaborare questa memoria, mantenendo aderenza con la fattualità storica, assume oggi nuovamente senso, dopo una prima fase di demonizzazione in chiave anti comunista, una successiva fase di oblio e fino all’attuale ripresa della narrazione nazionalista e non di rado filo fascista. Come sottolinea di fatto Gobetti, è importante riportare la complessità nelle vicende storiche, anche per evitare di “vittimizzare i fascisti”. Parlare delle Foibe senza contestualizzare momento e fattualità storica e “dimenticando” di parlare dei campi di concentramento gestiti da italiani, rischia di condurci a un falso sillogismo, per cui siccome molti fascisti ne furono vittime, allora i fascisti furono in toto le vittime.

Tale passaggio appare non scontato, specialmente in un’epoca come quella attuale: un’epoca, dice Gobetti a ilfattoquotidiano.it, “di generale vittimizzazione della memoria, in cui gli eroi oggi sono le vittime”. “Di fatto la prospettiva sembra invertita – aggiunge lo storico – Un tempo gli eroi per le diverse parti sarebbero stati coloro che schierandosi agivano, fossero stati i militi della Repubblica di Salò o i partigiani della Resistenza; i primi eroi per i filofascisti, i secondi eroi per gli antifascisti. Oggi non è più così e questo in qualche modo corrisponde alla diffusa idea di essere e dover essere in un’epoca pacificata, in cui ogni ideologia è condannata, in cui nessuno si schiera”.

D’altro canto, però, questo stesso ragionamento, risulta di per sé erroneo, aggiunge Gobetti, “poiché la memoria stessa è composita e conflittuale e non si può pensare di pacificare la società parificando le responsabilità del passato. Anzi, nel processo di costruzione dell’identità nazionale, scegliere di accogliere in sordina valori in contrasto come quelli del fascismo e quelli dell’antifascismo, vittimizzando parallelamente i fascisti, porta come effetto reale percezioni distorte e una legittimazione e accoglienza sostanziale dei valori fascisti”. Non solo, aggiunge lo storico: “Tutto ciò è permesso anche da una generale mancanza di assunzione delle responsabilità del regime fascista, che fa sì che il nostro Paese non abbia mai realmente condannato il fascismo, non facendo quindi i conti con il suo passato. In particolare, rispetto alla specificità del Giorno del Ricordo, è singolare pensare alla sensata presa di distanza da parte delle forze politiche storicamente eredi della sinistra rispetto a vicende umanamente tragiche, in contrapposizione a nessuna presa di distanza della destra su molti dei crimini commessi dai fascisti in Jugoslavia, in Etiopia, in Libia e nella stessa Italia”. Nondimeno ciò vale per il Giorno del Ricordo e per i tentativi retorici di assimilare in esso altre forme di rielaborazione della memoria, che si radicano nella storia, che pongono al centro la dirimente questione della responsabilità e che accettano il carattere non pacificabile e sempre partigiano delle vicende storiche.

Gobetti delinea il quadro articolato del riferimento geografico e della presunta “italianità” di chi abitava quei luoghi. Qui vi era infatti una grande commistione di popolazioni che hanno vissuto assieme per secoli, mescolandosi e creando identità comuni locali, entrate poi in crisi dalla fine della Grande Guerra, quando queste zone entrarono per la prima volta a far parte di uno Stato nazione, il Regno d’Italia. Le costruzioni propagandiste su cui giocò il regime fascista restano storicamente poco fondate.

Lo storico affronta poi la questione della “pulizia etnica”: sottolinea come le violenze commesse dai partigiani jugoslavi non avessero logiche “etniche”, ma piuttosto politiche, decostruendo di per sé i tentativi di riferimento a un “genocidio”. Infatti, se si ragiona rispetto all’appartenenza “etnica”, si può notare che gli italiani stavano su entrambi i fronti, poiché molti italiani combatterono a fianco delle forze della Resistenza slava (nella primavera del 1944 si stima che fossero tra i 20mila e i 30mila i partigiani integrati nell’esercito jugoslavo). Inoltre le vittime delle violenze avvenute dopo l’8 settembre erano principalmente rappresentanti dello Stato italiano, delle istituzioni del governo fascista, colpite non perché italiane ma perché fasciste. Occorre poi ricordare che i fascisti contribuirono a enormi violenze sul territorio, costruendo campi di concentramento che servivano a recludere partigiani e civili e appoggiando i movimenti collaborazionisti come gli ustascia croati e i cetnici serbi. E infine l’esodo. La narrazione legata a una volontà di pacificazione nazionale ci parla di 300mila italiani costretti a lasciare le proprie abitazioni per fuggire oltre confine. Ma un’approfondita disamina delle fonti sottolineata da Gobetti porta a collocare questi flussi in un arco temporale di 15 anni, dal 1941 al 1956. In particolare, è del 1954 la firma del Memorandum che prevede il passaggio di Trieste definitivamente all’Italia ed è dal 1954 al 1956 che un gran numero di profughi abbandona questi territori. Questi dati scardinano l’idea di un “improvviso” esodo forzato.

L’operazione di Gobetti, dunque, non è negazionismo, ma piuttosto un’attenta disamina dei fatti, per restituire complessità storica alla vicenda e dignità umana alle vittime, oltre ogni uso strumentale. Coltivare e rielaborare questa memoria, mantenendo aderenza con la fattualità storica, assume oggi nuovamente senso, dopo una prima fase di demonizzazione in chiave anti comunista, una successiva fase di oblio e fino all’attuale ripresa della narrazione nazionalista e non di rado filo fascista. Come sottolinea di fatto Gobetti, è importante riportare la complessità nelle vicende storiche, anche per evitare di “vittimizzare i fascisti”. Parlare delle Foibe senza contestualizzare momento e fattualità storica e “dimenticando” di parlare dei campi di concentramento gestiti da italiani, rischia di condurci a un falso sillogismo, per cui siccome molti fascisti ne furono vittime, allora i fascisti furono in toto le vittime.

Tale passaggio appare non scontato, specialmente in un’epoca come quella attuale: un’epoca, dice Gobetti a ilfattoquotidiano.it, “di generale vittimizzazione della memoria, in cui gli eroi oggi sono le vittime”. “Di fatto la prospettiva sembra invertita – aggiunge lo storico – Un tempo gli eroi per le diverse parti sarebbero stati coloro che schierandosi agivano, fossero stati i militi della Repubblica di Salò o i partigiani della Resistenza; i primi eroi per i filofascisti, i secondi eroi per gli antifascisti. Oggi non è più così e questo in qualche modo corrisponde alla diffusa idea di essere e dover essere in un’epoca pacificata, in cui ogni ideologia è condannata, in cui nessuno si schiera”.

D’altro canto, però, questo stesso ragionamento, risulta di per sé erroneo, aggiunge Gobetti, “poiché la memoria stessa è composita e conflittuale e non si può pensare di pacificare la società parificando le responsabilità del passato. Anzi, nel processo di costruzione dell’identità nazionale, scegliere di accogliere in sordina valori in contrasto come quelli del fascismo e quelli dell’antifascismo, vittimizzando parallelamente i fascisti, porta come effetto reale percezioni distorte e una legittimazione e accoglienza sostanziale dei valori fascisti”. Non solo, aggiunge lo storico: “Tutto ciò è permesso anche da una generale mancanza di assunzione delle responsabilità del regime fascista, che fa sì che il nostro Paese non abbia mai realmente condannato il fascismo, non facendo quindi i conti con il suo passato. In particolare, rispetto alla specificità del Giorno del Ricordo, è singolare pensare alla sensata presa di distanza da parte delle forze politiche storicamente eredi della sinistra rispetto a vicende umanamente tragiche, in contrapposizione a nessuna presa di distanza della destra su molti dei crimini commessi dai fascisti in Jugoslavia, in Etiopia, in Libia e nella stessa Italia”. Nondimeno ciò vale per il Giorno del Ricordo e per i tentativi retorici di assimilare in esso altre forme di rielaborazione della memoria, che si radicano nella storia, che pongono al centro la dirimente questione della responsabilità e che accettano il carattere non pacificabile e sempre partigiano delle vicende storiche.

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RADIO PODEROSA PER IL GIORNO DELLA MEMORIA

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ASCOLTA QUI: radiopoderosa-per-il-27-gennaio

NEL GIORNO DELLA MEMORIA DICIAMO NO CON ANCORA PIU’ FORZA ALLE ORGANIZZAZIONI FASCISTE

 di Rita Scapinelli*

Il Parlamento italiano, all’unanimità, con la legge n.211 del 20 luglio 2000 ha istituito “Il giorno della memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti: con due semplici articoli il Parlamento ha voluto istituire un giorno nel quale si organizzano cerimonie, iniziative, incontri soprattutto rivolti alle scuole di ogni ordine e grado per riflettere su quanto è accaduto nei campi di concentramento in modo da conservare nel futuro dell’Italia, la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia del nostro paese e dell’Europa, affinché simili fatti non possano più accadere. L’assurdità delle leggi razziali, una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei che a partire dal 1938 vennero promulgate ricalcando le leggi razziali naziste di Hitler del 35, hanno realizzato una delle pagine più buie della storia italiana in Italia. Ci si inventò la razza ebraica, si trasformarono in nemici i propri vicini. Coloro con i quali sino al giorno prima si lavorava fianco a fianco, i bambini che avevano giocato insieme, frequentato le stesse scuole diventavano dei nemici o peggio ancora indesiderabili da cacciare o eliminare. La razionalità umana si era oscurata trascinando milioni di vite in un baratro, la Seconda guerra mondiale voluta da Hitler, con le potenze dell’Asse e portata avanti con freddezza dalla macchina nazista e fascista. L’eliminazione fisica degli ebrei, dei Rom e Sinti (ricordiamo oltre la Shoah anche il Porrajmosh), di gay, disabili, malati mentali, “asociali”, dissidenti politici, è stato un atto più grave di qualsiasi guerra, perché mosso dalla volontà di annientare intere popolazioni e persone, di attuare una grande opera di selezione razziale disegnata dai gerarchi nazisti; un crimine di ferocia bruta che ha mortificato l’intera umanità.

Per anni abbiamo fatto parlare i testimoni, quando questi volevano o riuscivano a parlare, ora non possiamo lasciare che tutto venga dimenticato.

Le parole d’ordine “devi ricordare”, “la memoria è un dovere” perché “senza memoria le generazioni non hanno futuro” non devono essere parole vuote, dobbiamo fare i conti anche con le dimenticanze e i silenzi di questi anni.

È evidente che in quel periodo drammatico ci fu chi percepì con chiarezza il senso della giustizia, della lotta per la democrazia guardando ad ideali più alti perdendo la vita nella Resistenza, mentre molti non osarono opporsi e battersi contro la barbarie nazi-fascista., per indifferenza, per viltà o falsa coerenza, o anche per scelta. Questo discrimine non va assolutamente ignorato, non si compie un atto di giustizia quando si tenta di confondere la verità dei fatti storici in nome di un “gesto umanitario di riconciliazione”, ma si mette sullo stesso piano democrazia e dittatura. Non ci può essere nessuna assoluzione per chi scelse di stare dalla parte dei fascisti e dei nazisti.

Ed è ancor meno accettabile che, nel tentativo di giustificare il silenzio sui crimini fascisti, si sia voluto equiparare il fascismo al comunismo, come nella risoluzione del Parlamento europeo nel settembre 2019, pochi giorni dopo aver ricordato gli 80 anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale.

In quella guerra i comunisti stavano dalla parte di chi si è battuto contro questi crimini mentre i fascisti li hanno commessi. I comunisti contribuirono, insieme alle altre forze politiche, dopo il 25 aprile, a ricostruire la democrazia in Italia, dimenticando le appartenenze. Questa fu la nostra forza in Italia.

La lotta di Liberazione affrancò il nostro paese da una delle pagine più nefande della nostra storia, la Liberazione segnò la fine di un incubo e, con la scrittura della carta costituzionale, l’inizio di una nuova stagione. La nostra Costituzione è composta da una serie di articoli che dicono l’esatto contrario di tutto ciò che stava alla base del fascismo perché i padri e le madri costituenti avevano vissuto sulla propria pelle la tragedia del regime, con la scrittura di questo testo, si prefiggevano l’obiettivo di cancellare per sempre la possibilità di un ritorno dell’ideologia fascista. Come scrive anche Dario Venegoni, presidente dell’Aned, “ogni parola della Costituzione è scritta in contrapposizione con l’ideologia e l’esperienza storica del fascismo di cui l’Italia si voleva liberare per sempre”: la nostra Costituzione è antifascista per natura!

E in quest’ottica, proprio per non dimenticare, accanto alle varie iniziative istituzionali o agli interventi che, giustamente si fanno nelle scuole per il Giorno della Memoria, va sostenuta con forza la richiesta, presentata al governo da un largo schieramento di forze sociali e politiche, di mettere fuori legge le organizzazioni neofasciste, richiedendone quindi l’immediato scioglimento.

*Responsabile nazionale Antifascismo,  PRC-SE

==============================================================================BINARIO 21

di Aldo Garzia *

Dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943, cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso Auschwitz-Birkenau e altri campi di sterminio (Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli e Bolzano). I vagoni piombati, con il loro carico umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale. I convogli, nascosti alla vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori. Furono oltre 1500 le persone caricate a forza dai fascisti repubblichini al servizio dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più.

IN ORIGINE il Binario 21, prima dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi visibile tra i mosaici. Dal 27 gennaio 2013 l’originario Binario 21 è parte del Memoriale della Shoah. La lunga notte di Milano iniziò .con l’ingresso, il 10 settembre 1943, dei primi granatieri della divisione corazzata delle Waffen-SS Leibstandarte Adolf Hitler.

vagoni piombati sul binario 21

UN CORPO D’ÉLITE che solo pochi mesi prima, a Geigova, nella ritirata di Russia, si era macchiato dello sterminio di quattro mila prigionieri russi per rappresaglia, e nel volgere di pochi giorni, dopo aver varcato il confine italiano, compiuto il massacro di Boves in provincia di Cuneo, 25 le vittime inermi. Tra il 15 e il 23 settembre truciderà per odio razziale, oltre che per rapinare i loro beni, 54 ebrei sfollati sul lago Maggiore, tra Stresa, Baveno, Meina e Arona. La strage del Verbano fu il primo eccidio di ebrei compiuto in Italia.

GIÀ A PARTIRE dal 13 settembre a Milano entrò in funzione la struttura delle SS, guidata dal capitano Theodore Saeweche, direttamente dipendente dal colonnello Rauff, capo del comando interregionale della «Polizia e servizio di sicurezza», la cosiddetta Sipo-Sd, che comprendeva Piemonte, Liguria e Lombardia. Walter Rauff era stato l’inventore dei “camion della morte” in Polonia e Russia che anticiparono le camere a gas, 90.000 le vittime. La sede del comando interregionale e milanese fu installata in pieno centro, a pochi passi da piazza Duomo, all’Hotel Regina. Oggi l’albergo non esiste più. Al suo posto gli uffici di alcune società finanziarie.

Il carcere di San Vittore passò sotto la gestione delle SS. Il penitenziario si riempì rapidamente. Due dei suoi sei bracci, il IV, il V, furono destinati ai detenuti politici, il VI agli ebrei. A dirigerlo inizialmente il maresciallo Helmuth Klemm, poi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto «la belva», sempre con il frustino e un’inseparabile cane lupo. Tra il settembre 1943 e il 12 aprile 1945 su un totale di 18.828 arrestati, 4.982 furono deportati in Germania. A ricordare orrori e sofferenze una targa murata sull’ingresso di via Filangieri 2 posta il 25 aprile 1965 dall’allora sindaco Pietro Bucalossi. Ma non erano solo le SS ad arrestare. Almeno nella metà dei casi, come risultò dagli stessi registri, furono le organizzazioni fasciste e le molte polizie politiche a consegnare i prigionieri ai tedeschi, tra loro la Legione Muti, la X Mas, le Brigate nere e la banda Kock.

VIA ROVELLO E VIA TIVOLI. Almeno otto furono i corpi investigativi che operarono indipendentemente l’uno dall’altro con proprie carceri. In via Rovello 2, attuale sede del Piccolo Teatro, la Legione Muti istituì la propria caserma comando. A dirigerla Francesco Colombo, un pregiudicato per reati comuni nominato vicequestore dal ministro degli Interni. In via Tivoli si trovava invece la caserma “Salinas”. A comandarla il capitano Pasquale Cardella, lo stesso che guidò il plotone d’esecuzione in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, per fucilare 15 patrioti. Al posto dell’edificio in via Tivoli si trova ora solo un giardino, davanti al teatro dedicato a Giorgio Strehler.

TUTTA MILANO ERA disseminata di comandi e caserme. Il «Servizio sicurezza» delle SS si trovava in corso Littorio 10. Divenne poi corso Matteotti. L’ufficio stampa e propaganda della X Mas, era alloggiato all’albergo Nord, accanto al comando della Wermacht, in piazza Fiume, ribattezzata dopo la Liberazione piazza della Repubblica.

MA È LONTANO dal centro che bisognava andare per rintracciare il covo della banda Koch, a “Villa Triste”, così soprannominata per le torture che vi si infliggevano, in via Paolo Uccello, dalle parti di San Siro. Una villa storica. Nel giugno del 1944 vi si installò Pietro Koch, proveniente da Roma, dove aveva gestito un «Reparto speciale della polizia repubblicana», ma soprattutto aveva fornito un elenco di nomi ai nazisti per la strage alle Fosse Ardeatine. Nei sotterranei furono allestite cinque celle. In qualche periodo vi furono stipate fino a un centinaio di persone. Le urla dei seviziati si sentivano fin dalla strada. Alla fine, il 24 settembre 1944, quasi solo per ragioni di lotta intestina fra le diverse bande fasciste, “Villa Triste” fu chiusa. La famiglia Fossati, proprietaria dell’immobile, decise di non abitarla più e lasciarla in eredità ad un istituto missionario, che a sua volta lo donò a una congregazione di suore.

  • dal Manifesto del 25 gennaio 2022

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