LA FOTOGRAFIA DI RAMAZAN ÖZTÜRK CHE CI HA FATTO CONOSCERE IL MASSACRO DI HALABJA

Storia della famosa foto testimone del massacro di Halabja, scattata nel 1988 dal fotografo turco Ramazan Ozturk

DI MURAT CINAR

ASCOLTA QUI: La-foto-di-Ozturk

La foto di Ramazan Ozturk

Il 16 marzo 1988 circa 5.000 persone, per lo più bambini, donne e anziani, hanno perso la vita durante l’attacco con armi chimiche lanciate da aerei ed elicotteri del regime baathista iracheno guidato da Saddam Hussein; secondo le relazioni delle Nazioni Unite si contano tra i 7.000 e i 10.000 feriti. Ad annunciare il massacro al mondo fu il fotografo turco Ramazan Öztürk.

“Seguivo la guerra già in atto tra Iraq e Iran da anni. Due giorni dopo il massacro, ossia il 18 marzo del 1988, sono arrivato nel nord dell’Iraq, vicino alla città di Halabja. Il mio intento era quello di documentare la guerra e i suoi effetti”. Proprio quel giorno, Öztürk scattò la foto che lo ha reso famoso a livello mondiale: Il testimone silenzioso.

Fotografo di cittadinanza turca, Ramazan parla di un silenzio senza precedenti che copriva la città di Halabja. “Mi sono avvicinato a quella zona con un elicottero. Erano più di 35 anni che seguivo le guerre, i massacri e le rivolte ma non avevo mai notato questo tipo di silenzio, assoluto. Non si sentiva nemmeno il cinguettio di un uccello”. Una volta arrivato in città, Öztürk trovò le strade e le abitazioni colme di cadaveri, specialmente di donne, bambini e anziani, perché gli uomini più giovani avevano già lasciato la città per combattere una guerra che sarebbe durata otto anni.

Camminando per le strade di Halabja, Öztürk notò una persona morta e stesa per terra, tra le sue braccia un bambino, anche lui morto. La famosa fotografia di Öztürk ci fa pensare che l’ultimo gesto dell’uomo fosse quello di proteggere disperatamente il bambino. L’adulto si chiamava Ömer Hawar e il bambino deceduto insieme a lui aveva solo un anno.

“In questa città, all’epoca vivevano 70 mila persone. Non potete immaginare quanto sia forte vederla quasi vuota ma contemporaneamente piena di cadaveri. Mi sembrava che le persone decedute fossero rimaste estremamente sorprese per quello che stava capitando loro, e provassero a scappare disperatamente per salvarsi”.

Durante la guerra tra Baghdad e Teheran, il regime di Saddam Hussein decise di colpire Halabja con un bombardamento aereo utilizzando una serie di prodotti chimici per “punire” la presa di posizione del partito politico curdo l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK). La formazione politica curda e separatista per anni ha lottato contro le politiche di assimilazione culturale imposta dalla dittatura ba’athista e la condizione di discriminazione sofferta dai curdi in Iraq.

Oggi possiamo dire che quasi solo grazie alle fotografie di Ramazan Öztürk il mondo ha conosciuto questo massacro, avvenuto poco prima che la lunga guerra si concludesse.

Secondo un’indagine medica condotta successivamente dalle Nazioni Unite, ad Halabja è stato usato il gas iprite insieme ad agenti nervini non identificati. Non è un caso che, dopo l’invasione statunitense in Iraq nel 2003, sia stato catturato uno dei più importanti responsabili di questo massacro: Ali Hassan Abd al-Majid al-Tikritieh, detto “Alì il chimico” proprio per il bombardamento ad armi chimiche su Halabja guidato da lui stesso nel 1988.

Alcuni anni prima di essere catturato Alì era stato nominato governatore del Kuwait dal regime iracheno per un anno, dal 1990 al 1991, periodo in cui Baghdad invade questo piccolo paese del golfo. “Proprio in quel momento, il mondo ha scoperto cosa fosse successo due anni prima, ad Halabja. Questo è avvenuto tramite quella mia famosa fotografia. La vedevo sulla copertina di numerose riviste. Il mondo parlava di un massacro e della dittatura di Saddam, ma erano già passati due anni dopo gli avvenimenti di Halabja. Ho sempre trovato molto ipocrita questa presa di posizione perché durante la guerra degli otto anni purtroppo una buona parte del mondo occidentale sosteneva Saddam e l’ha riempito di armi, ma anche di prodotti chimici che ha usato per massacrare 5000 persone ad Halabja”.

Ali Hassan Abd al-Majid al-Tikritieh è stato processato e condannato a morte con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, e il 25 gennaio del 2010 è stato impiccato. Al processo è stato convocato anche Ramazan Öztürk come testimone: “Ho sempre desiderato di guardare in faccia, un giorno, i mandanti di quel massacro. In aula ho presentato e mostrato 47 fotografie che ho scattato a Halabja. Mentre i giudici e i parenti delle persone uccise piangevano, Alì mi guardava fisso negli occhi e ad un certo punto mi chiese cosa stessi facendo quel giorno ad Halabja. Io gli risposi che ero lì come fotografo, per documentare che tipo di atrocità era in grado di fare un essere umano sul suo prossimo”.

Murat Cinar

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Vilipendio» a Erdogan, l’articolo 299 non perdona

Oggi su Il Manifesto un articolo di Murat Cinar su come il governo al potere in Turchia stia usando sistematicamente da anni l’articolo del codice penale sul vilipendio al presidente, per reprimere le voci dell’opposizione.

Turchia. Ultima vittima la giornalista Sedef Kabas, finita in carcere per un proverbio in diretta tv. 160 mila denunce per oltraggio alla Presidenza in sette anni. Mille sono contro minori. Vietato criticare il “palazzo”

Istanbul, 22 gennaio, Sedef Kabas viene trasferita in tribunale dopo l’arresto. Accusata di vilipendio al presidente, rischia da 1 a 4 anni
 Istanbul, 22 gennaio Sedef Kabas viene trasferita in tribunale dopo l’arresto.

La giornalista Sedef Kabas è stata arrestata in Turchia lo scorso 22 gennaio con l’accusa di «Vilipendio al Presidente della Repubblica». Un’indagine condotta alla velocità della luce ha analizzato le dichiarazioni rilasciate dalla giornalista in diretta tv. E la detenzione provvisoria in tempo reale è stata trasformata in arresto.

Le parole di Kabas che configurano un reato, secondo i giudici, erano state queste: «Quando un animale entra nel palazzo non diventa un re ma quel palazzo diventa una stalla». Un vecchio proverbio popolare anatolico, citato dalla giornalista durante il suo programma sul canale televisivo Tele1, per smontare la teoria esposta in un altro detto, quello secondo cui «una testa diventa più saggia quando indossa una corona». Ma il riferimento al «palazzo», che in Turchia è sinonimo dell’istituzione presidenziale, ha fatto scattare le manette.

SEDEF KABAS non è né la prima vittima di questa legge. Parliamo dell’articolo 299 del codice penale turco, che recita così: «Atti e dichiarazioni che minano i sentimenti e i pensieri dei cittidini sul valore dell’ufficio della Presidenza e ne ledono l’onore e il prestigio mediante oltraggio al Presidente della Repubblica, o atti di maledizione». La violazione può avere conseguenze pesanti: da 1 a 4 anni di reclusione.

Nel settembre 2021, in un’intervista rilasciata a Margaret Brennan per la Cbs, Erdogan aveva dichiarato che in Turchia non esisteva nessun processo per violazione dell’articolo 299; le fonti della giornalista che sosteneva il contrario erano «false e ingannevoli».

TUTTAVIA POCHI GIORNI DOPO il ministero della Giustizia aveva pubblicato un report da cui risulta che dal 2014 al 2021 errano state denunciate 160.169 persone e 31.297 di queste denunce erano state trasformate in processo con l’accusa di vilipendio al presidente. Numeri in notevole crescita da quando Recep Tayyip Erdogan è al potere, con 19 volte più casi rispetto al suo predecessore Abdullah Gul. Il fatto che poi che 1.107 di queste denunce abbiano riguardato minorenni salta all’occhio.

Alla fine 12.881 persone sono state condannate, in 3.625 casi con la reclusione. 10 i minorenni. In totale solo 5.660 persone sono uscite da questi processi con un’assoluzione. Tra loro c’è Sefer Selvi, caricaturista del quotidiano nazionale Evrensel. È stato processato per via di 11 fumetti che aveva disegnato tra il 2014 e il 2017. Nel mese di gennaio del 2021 è stato assolto. Secondo il fumettista il presidente della Repubblica dovrebbe essere in grado di accettare le critiche. Per Erol Ondereoglu, il rappresentante nazionale di Reporter senza frontiere, l’articolo 299 deve essere assolutamente abolito: «La Commissione di Venezia si era pronunciata in questa direzione già nel 2016». Tuttavia le cose non sono ancora cambiate.

NELLA LISTA DELLE PERSONE denunciate, processate e condannate ci sono parecchi giornalisti ed esponenti politici. Alcuni tra coloro che ormai vivono in esilio o hanno provato o provano tuttora l’esperienza carceraria vediamo il nome dei giornalisti Deniz Yucel, Can Yucel e Hayko Bagdat, del parlamentare dell’opposizione Aykut Erdogdu e dell’attrice teatrale Nilufer Aydan.

Tra le persone denunciate ci sono anche quei cittadini che non sono personaggi pubblici, esattamente come Vedat Sorli, condannato a 11 anni e 20 giorni di prigione per alcuni post su Facebook. Dopo una lunga battaglia legale la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) nell’ottobre 2021 ha condannato la Turchia a 7.500 euro di risarcimento perché in questo processo non era stato rispettata la libertà di espressione del cittadino. Nella sua relazione la Cedu invita ancora una volta Ankara a rimuovere l’articolo 299 dal codice penale.

DOPO L’ARRESTO della giornalista Sedef Akbas, l’Unione degli Albi legali di Turchia ha pubblicato un comunicato stampa in cui l’articolo 299 viene definito uno strumento nelle mani dal potere politico per limitare la libertà di espressione dei giornalisti in Turchia: «La limitazione di questo diritto impedisce ai cittadini di esercitare il loro diritto di essere informati e avere idea di ciò che accade nel Paese. L’arresto di una giornalista non è un’azione preventiva, ma è un atto d’intimidazione, costruisce le basi di una cultura politica che governa il Paese con la paura».

Murat Cinar

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L’EREDITA’ DI HRANT DINK

ARTICOLI DI MURAT CINAR SU HRANT DINK

15 anni fa oggi, davanti alla sede centrale del quotidiano nazionale AGOS, veniva assassinato uno dei giornalisti più importanti della Turchia, ossia Hrant Dink.

“Il fiume ha trovato il proprio letto” è un articolo suo, scritto nel lontano 2005, l’avevo tradotto nel 2012 e oggi, con Massimiliano Carrino abbiamo deciso di animarlo e condividerlo con voi.

Ascolta qui: Il-fiume-ha-trovato-il-proprio-letto-in-ricordo-di-Hrant-Dink

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A quindici anni dall’omicidio del giornalista Hrant Dink la sua battaglia è ancora viva nella comunità e nella sinistra turca. Il ricordo dello scrittore Hayko Bagdat.

L’EREDITA’ DEGLI ARMENI

Per la presentazione clicca qui: Murat-Cinar-1

Sono passati quindici anni dal 19 gennaio 2007 e l’assassinio di Hrant Dink, fondatore e direttore di Agos, il giornale istanbuliota pubblicato in turco e armeno.

Nel Paese la memoria del giornalista è ancora molto viva tra la minoranza armena e gli ambienti progressisti e di sinistra, tanto da unire allora come oggi migliaia di persone intorno allo slogan «Hepimiz Hrant’ız, Hepimiz Ermeniyiz» (siamo tutti Hrant, siamo tutti armeni).

Sulla memoria ed eredità culturale di Dink e sulla realtà della minoranza armena di Turchia, abbiamo intervistato lo scrittore turco-armeno Hayko Bagdat, per anni collaboratore di Agos. Dal 2016 vive in esilio a Berlino, dopo aver lasciato la Turchia a seguito di pesanti minacce e forti pressioni.

Come sei venuto in contatto con Hrant Dink e il giornale Agos?

Ho conosciuto Dink attraverso la mia attività in radio. Negli anni ho avuto poi l’opportunità di conoscerlo meglio collaborando con il quotidiano nazionale Agos. Dopo il suo assassinio, circa un anno dopo, nel 2008, mi sono attivato insieme ad altre persone e abbiamo fondato il gruppo «gli amici di Hrant». L’obiettivo era quello di seguire il processo, organizzare manifestazioni, stare vicino alla famiglia ed essere presenti nelle aule del tribunale.

Che cosa rappresentava Hrant per te?

Per un armeno di sinistra come me, Dink era come una sorta di «sorgente di luce». Con il suo impegno ha esortato tutta la Turchia e il popolo armeno a conoscere ogni singolo dettaglio degli eventi legati al genocidio. Con lui gli armeni hanno acquisito più visibilità. Sciaguratamente, insieme al suo assassinio è stata uccisa anche la nostra energia ed è stata strozzata ogni speranza.

Come sono andate le cose dopo la morte di Hrant?

I primi tempi, subito dopo la morte di Dink, non sono stati semplici. Vi faccio un esempio: in onore del suo assassino, un musicista turco ha composto un brano, divenuto popolare e canticchiato tra i poliziotti all’esterno dei tribunali durante le fasi del processo. Un esempio evidente di come l’uccisione di Dink avesse ucciso anche la possibilità di convivenza tra i popoli della Turchia. Se osserviamo bene come sono andate le cose possiamo dire che dopo la morte di Dink non solo in Turchia ma in tutto il Medio Oriente le dinamiche sono cambiate in peggio.

Negli anni che separano l’uccisione di Dink dalla rivolta popolare di Gezi nel 2013, la speranza che la democrazia in Turchia non fosse morta e che avremmo ottenuto un giusto processo e una verità giudiziale era ancora viva. Ma dopo Gezi e dal fallito golpe del 2016 vivere in Turchia è diventato molto difficile e la mancanza di democrazia è diventato un problema di tutti. Per anni ho ricevuto minacce di morte e girato con la scorta della polizia. Da dicembre 2016 vivo in Germania, in esilio, ma anche qua ricevo periodicamente minacce e ho dovuto chiedere la protezione delle autorità.

La minoranza armena in Turchia ha delle scuole e qualche rappresentate in parlamento. Verrebbe da dire che tutto sommato c’è un po’ di spazio?

È vero, in Turchia abbiamo il diritto all’istruzione in lingua armena ma questo è un diritto garantito, anche con la spinta degli europei, attraverso il trattato di Losanna (1923). Anche dopo questa convenzione, noi armeni e cristiani, abbiamo continuato a convivere con numerosi problemi. Il genocidio, l’allontanamento di persone e altre problematiche non sono né state affrontate, né risolte. Oggi, per esempio, curdi e aleviti hanno grossi problemi di riconoscimento dei propri diritti e identità. La Turchia è oggi il Paese in cui sono stati uccisi più cristiani nel mondo. Tuttora gli armeni e i non musulmani sono percepiti come una minaccia per la sicurezza nazionale dal governo e dalla maggioranza della popolazione.

Durante il recente conflitto armeno-azero abbiamo assistito a un crescente odio nei media e diversi sono stati gli episodi di violenza contro la minoranza armena di Turchia. Nel parlamento turco ci sono stati e ci sono dei parlamentari armeni sia nel partito di maggioranza, sia in quelli d’opposizione. Questi deputati hanno portato avanti importanti lavori. Penso che la loro presenza sia stata utile, tuttavia è come se fossero dei pesciolini colorati di un grande acquario. Soltanto nel caso dell’Hdp posso affermare che la presenza armena sia stata determinante e in un certo senso protagonista. In questo partito gli armeni hanno un rappresentante nel parlamento ma tantissimi sono quelli che lavorano nell’organizzazione in modo attivo con ruoli determinanti.

L’eventuale ripristino delle relazioni tra Turchia e Armenia potrebbe rappresentare un nuovo inizio?

Oggi le relazioni tra Ankara e Yerevan sembrano in fase di miglioramento. Sono convinto che la situazione attuale sia la conseguenza di una serie di nuove dinamiche e di mutamenti che stanno interessando la regione. La risoluzione del problema legato al Karabakh apre uno scenario più sereno. Il ripristino delle relazioni e l’eventuale riapertura delle dogane nascono da una serie di necessità commerciali vitali che interessano sia l’Armenia che la Turchia. Per la pace e il dialogo non avrei mai voluto che la regione pagasse un conto così salato. Non sono assolutamente contro la riapertura delle dogane, anzi, spero davvero che possa essere un elemento di normalizzazione.

Cosa pensi di Agos?

Il quotidiano Agos oggi continua a lottare e resistere come una fortezza. Penso che sia uno degli organi di stampa più importanti della Turchia e, malgrado le numerose minacce e pressioni, continua a lavorare molto bene. Sono un amico di Agos e insieme si deve lavorare per renderlo ancora più grande, produttivo e solido.

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Il documentario. «La memoria non basta»: la pace come sforzo collettivo

«Hafiza Yetersiz» (Memory Too Low For Words) è il nuovo documentario del regista e giornalista Umit Kivanç. Un’opera che sa di Vertov e a tratti di Einzenstein, interamente dedicata al giornalista armeno Hrant Dink.

«La memoria non basta» – questo il senso in italiano – è un lavoro che include diversi passaggi estratti dai numerosi interventi pubblici di Dink e arricchito da tante immagini d’archivio e inedite. «Io non vivo nella diaspora, vivo nelle terre dove hanno vissuto i miei antenati da tremila anni», è una delle prime dichiarazioni di Dink che aprono il documentario. Una frase che si scaglia contro la percezione che in ambienti nazionalisti turchi si ha degli armeni, spesso considerati come degli «ospiti» o degli «intrusi».

Dal documentario emerge l’analisi di Dink sulla dicotomia irrisolta tra la paranoia dei turchi e il trauma degli armeni. «Non c’è altra soluzione, gli armeni e i turchi devono vivere insieme e in pace. Dobbiamo risolvere da noi i nostri problemi. Dobbiamo costruire una memoria collettiva e per farlo è necessario che le informazioni possano circolare liberamente e la libertà di pensiero sia garantita».

L’ultima opera del regista Umit Kivanç si conclude con un’altra considerazione sul concetto di cittadinanza che approfondisce il pensiero di Dink in modo molto chiaro e onesto: «Sono un cittadino turco e voto ma i parlamentari eletti e pagati da me costruiscono delle politiche e usano un linguaggio contro l’immagine dell’armeno ogni giorno».
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La prima volta di Ankara e Yerevan

Venerdì 14 gennaio gli inviati speciali di Turchia e Armenia si sono incontrati per la prima volta a Mosca per normalizzare i legami tra i due Paesi. Il primo round di colloqui potrebbe portare all’instaurazione di relazioni diplomatiche e alla riapertura dei confini tra Turchia e Armenia, che non hanno relazioni diplomatiche e commerciali dal crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza armena, nonostante un accordo di pace raggiunto nel 2009 e mai ratificato.

L’inviato armeno Ruben Rubinyan e il suo omologo turco, Serdar Kilic, si sono incontrati «in un’atmosfera positiva e costruttiva» venerdì, hanno affermato i rispettivi ministeri degli esteri in una dichiarazione congiunta. Nonostante questo clima «positivo e costruttivo», il solco che separa Ankara da Yerevan è ancora molto profondo. Molto dipenderà se la questione genocidio sarà o meno affrontata, tema sul quale la diaspora armena gioca sicuramente un ruolo decisivo negli equilibri internazionali.

da Il Manifesto del 21 gennaio 2022 in copertina: Hrant Dink (Foto: Ap)

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