PER CHI SUONA LA CAMPANELLA…. e per chi neanche quella
INDICE: UN ALTRO RAGAZZO E’ MORTO DURANTE UNO STAGE – MA CHE VOGLIONO QUESTI STUDENTI? I motivi delle proteste studentesche di questi giorni – VOGLIAMO IMPARARE A SUONARE IL CLAVICEMBALO, SE LO DESIDERIAMO! Storia e stato attuale dei CPIA, Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti – Qui scuola: c’è qualcuno là fuori? INTERVISTA DI SILVIA ROSA A ENNIO AVANZI EX DOCENTE DEL CPIA 2 DI TORINO
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Un altro ragazzo è morto durante uno stage
Il ragazzo era iscritto al corso triennale presso il centro di formazione professionale ‘Artigianelli’ di Fermo e, da quanto si è appreso, stava svolgendo un percorso di alternanza scuola-lavoro proprio in termoidraulica. La sindaca del comune del fermano, Moira Canigola, ha parlato di “tragedia indescrivibile” e di “un dramma che distrugge una famiglia”.
“Quello che sta succedendo in Italia è sotto gli occhi di tutti. Questa è la scuola che hanno voluto governi e padroni. Sappiamo cosa fare, nessuno ha più scuse. Il 18 febbraio gli studenti saranno in piazza in tutta Italia contro alternanza, maturità e repressione subita”
dal sito Fan Page
Giuseppe Lenoci, un ragazzo di 16 anni di Monte Urano (Fermo) che stava svolgendo uno stage aziendale, è morto questa mattina in seguito a un incidente stradale avvenuto a Serra De’ Conti, in provincia di Ancona. Il giovane sedeva sul lato passeggero a bordo di un furgone guidato da un operaio di 37 anni, anch’egli originario del fermano, che si è schiantato contro un albero in località Fornace. Giuseppe studiava in una centro di formazione professionale in regione e stava svolgendo un periodo di stage curriculare nel campo della termo idraulica. Il 37enne alla guida del mezzo è stato sbalzato fuori dalla cabina a seguito dell’impatto: è stato trovato – gravemente ferito ma ancora vivo – dai soccorritori accorsi dopo lo schianto ed è ora ricoverato all’ospedale Torrette di Ancona.
Stando a una prima ricostruzione dei fatti, l’autista ha perso il controllo del mezzo andando a schiantarsi contro un albero nel campo adiacente alla carreggiata. L’impatto è stato molto violento e nell’urto l’operaio è stato sbalzato fuori dall’abitacolo finendo a diversi metri di distanza dal veicolo, rimanendo incosciente a terra. Il 16enne invece è rimasto incastrato tra le lamiere, anche perché l’albero ha colpito proprio il lato destro del furgone. A dare l’allarme ai soccorritori sono stati altri automobilisti che transitavano su via Fornace; vigili del fuoco e sanitari del 118 hanno lavorato a lungo per estrarre dalle lamiere il ragazzo, che tuttavia è deceduto sul colpo a seguito delle gravissime lesioni riportate. A constatare la morte è stato il medico del 118.
La CGIL Marche: “Enorme tragedia, forte aumento degli infortuni tra i lavoratori under 20”
Fonte: CGIL Marche
Dopo la morte di Lorenzo Parelli, lo studente di 18 anni travolto e ucciso da una trave di 150 chili durante il suo ultimo giorno di stage in una fabbrica in provincia di Udine, un’altra tragedia investe un adolescente che stava frequentando un tirocinio aziendale; esperienza formativa, quindi, e non lavorativa. Su questo aspetto in particolare chiede di fare piena luce Daniela Barbaresi, segretaria della CGIL nelle Marche: “Si tratta di una tragedia enorme: va accertato se il ragazzo stesse svolgendo un tirocinio formativo e uno stage nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. In ogni caso, comunque, quello che è accaduto deve farci riflettere su come vengono svolti questi tirocini. Se da un lato infatti si può trattare di importanti esperienze formative, è anche necessario rispettare tutte le misure di sicurezza ed occorre riflettere sull’opportunità che un adolescente in formazione partecipi a trasferte e spostamenti”. Nelle Marche, ricorda Barbaresi, nel 2021 sono sensibilmente aumentati gli infortuni sul lavoro tra gli under 20; l’incremento è stato del 46%, mentre nella fascia d’età 20-29 si è attestato nel 17%. “Tre le cause: la scarsa esperienza dei giovani lavoratori, la mancanza formazione adeguata in tema di sicurezza e la precarietà”, spiega Barbaresi.
Il dramma di oggi ha riacceso le polemiche sull’alternanza scuola lavoro, oggetto della mobilitazione studentesca seguita alla morte di Lorenzo Parelli, un altro ragazzo colpito da una trave d’acciaio in una fabbrica a Lanuzacco (Udine) dove stava svolgendo un periodo di apprendistato. Tante le reazioni che stanno arrivando in queste ore. “Un’altra tragedia. Questa volta un ragazzo di 16 anni morto durante uno stage. Che deve succedere perché si prenda atto che il sistema attuale non funziona?”, le parole del segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. “Il ministero ascolti gli studenti – ha aggiunto – che si mobilitano e chiedono di fermare questo cortocircuito continuo tornando ad investire pienamente sulla Scuola”.
Abolire stage e alternanza scuola-lavoro
In una nota l’Unione degli studenti chiede di abolire stage e alternanza scuola-lavoro: “Dopo tre settimane dall’omicidio di Lorenzo Parelli un altro ragazzo è morto durante uno stage, questa volta di sedici anni. Il ragazzo era passeggero su un autocarro che si è schiantato contro un albero, stava studiando in un centro di formazione professionale in regione e stava svolgendo un periodo di stage curriculare nel campo della termo idraulica”. “Questa morte si aggiunge a una lunga lista di morti sul lavoro e all’interno delle scuole – così ancora Luca Redolfi, coordinatore nazionale dell’Unione Degli Studenti – morti causati da un sistema malato, volto solamente al profitto. Esprimiamo solidarietà e vicinanza alla famiglia, i compagni di scuola e gli amici del ragazzo”. “Vogliamo sicurezza dentro e fuori le scuole – continua – vogliamo che l’alternanza scuola-lavoro e gli stage vadano aboliti a favore dell’istruzione integrata che metta in critica il sistema produttivo attuale per costruire dai luoghi della formazione un modello diverso di società”. Secondo Redolfi, ci troviamo di fronte a “un’altra morte in un luogo di lavoro, dove uno studente non dovrebbe stare”. “Ci chiediamo – conclude – quanti altri studenti e giovani debbano morire prima l’idea di un sistema unicamente volto al profitto e allo sfruttamento, cambi, una volta per tutte”.
“È morto un altro studente in stage, in provincia di Ancona. Aveva 16 anni. Non è passato neanche un mese dalla morte di Lorenzo Parelli“, afferma in una nota il Fronte della Gioventù Comunista. “Quello che sta succedendo in Italia è sotto gli occhi di tutti. Questa è la scuola che hanno voluto governi e padroni. Sappiamo cosa fare, nessuno ha più scuse. Il 18 febbraio gli studenti saranno in piazza in tutta Italia contro alternanza, maturità e repressione subita”, ha dichiarato Lorenzo Lang, Segretario Nazionale del Fronte della Gioventù Comunista, tra i promotori delle proteste studentesche di queste settimane. “Attendiamo la prossima conferenza della Lamorgese – conclude – in cui ci spiegherà di nuovo che queste morti simboleggiano la ripresa del Paese, o parlerà ancora di fantomatici infiltrati nelle proteste degli studenti”.
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Ma che vogliono questi studenti?
gruppo Apriti scuola DAL SITO COMUNE.INFO
La prima differenza tra quelli che sono in alto e gli altri è che i primi non sanno e non vogliono ascoltare. E se la chiave per un buon ascolto non è il mezzo ma il desiderio allora dovremmo essere in tanti e tante a seguire lo sforzo del gruppo Apriti scuola (nato a Roma durante la pandemia) e metterci sul serio in ascolto degli studenti e delle studentesse che in questi giorni in modi diversi hanno ripreso parola. Scopriremmo la profonda consapevolezza del loro ruolo nella scuola e nella società, il muro di silenzio che li circonda, la loro determinazione ad andare avanti senza rappresentanti o sindacati pronti a trattare per tutti, ma prima di tutto il loro disagio nella vita di ogni giorno, il loro rifiuto delle discriminazioni e del dominio del lavoro sulla scuola, la capacità di tirare le fila tra lotte diverse, dalla tematica transfemminista alla questione ambientale, dall’Afghanistan fino alle mobilitazioni dei lavoratori della GKN a Firenze e della Whirpool a Napoli. Scopriremmo anche che non mirano al futuro, vogliono coinvolgere i propri coetanei qui e adesso. E che in questo contesto, le sbandierate aperture del ministero sull’esame di maturità restano una triste barzelletta. In fondo si tratta di coltivare il desiderio di ascoltarli
Che Lorenzo non sia morto invano. È il grido che si leva dall’assemblea degli studenti medi che si è tenuta sabato 5 febbraio 2022 negli ampi spazi all’aperto del centro Brancaleone, terzo Municipio di Roma. Sono arrivati da tutta Italia per incontrarsi e raccontare le azioni dei vari collettivi studenteschi. Abbiamo partecipato in ascolto, con l’orecchio di genitori e cittadini attivi nelle reti che si battono per una scuola pubblica di qualità e che vogliono trovare un filo per annodare percorsi.
L’ascolto ci ha restituito una realtà varia nelle forme, ma omogenea negli obiettivi, fatta di giovani cittadini consapevoli del proprio ruolo nella scuola e nella società, della necessità e dell’urgenza di trovare terreni e strumenti comuni di lotta intersezionale per rivendicare il diritto a studiare in scuole sicure e adatte ai tempi, ma anche il diritto a un lavoro dignitoso che non spezzi vite umane. Come quella del loro coetaneo, Lorenzo Parelli, morto in fabbrica a diciotto anni durante un tirocinio, parte del suo percorso di studio, come i 1.300 lavoratori morti sul lavoro l’anno scorso, tre al giorno.
Prendono parola uno alla volta e sono racconti di occupazioni, soffitti crollati durante la notte, quando non in pieno giorno, scuole attente ai numeri ma poco o nulla alle persone. Raccontano di azioni – manifestazioni, assemblee, occupazioni – fatte per rompere il muro del silenzio in cui li vorrebbe il sistema: studenti obbedienti che diventino lavoratori obbedienti. La loro protesta non cerca mediazione, non vuole sindacati a trattare per tutti, vuole dare voce a tutti, portare alla luce ogni disagio, dalla lotta alle discriminazioni alla scuola-lavoro, dalla protesta ambientale al disagio psicologico e all’abbandono scolastico.
S. da Roma ricorda le cinquanta occupazioni della Capitale, a partire dal Rossellini nell’ottobre 2021: rivendica fondi per la scuola, non per la digitalizzazione e l’aziendalizzazione. P. da Roma denuncia le azioni intimidatorie dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, la distanza e l’impreparazione delle istituzioni e della classe politica: gli studenti sono considerati come pacchi dentro e fuori casa, dentro e fuori dalla classe. La morte di Lorenzo ha generato la risposta in piazza, ma il conflitto era già nato prima, sul paradosso di una scuola offerta come un servizio commerciale, che esclude chi non ce la fa. N. da Venezia parla di trasporto locale insufficiente, personale insufficiente, una monocoltura della valutazione, un taglio continuo dei fondi e misure sanitarie inadeguate. Mancano tamponi, mascherine a norma e decenti, un sistema reale di tracciamento. In mezzo a tutte queste mancanze, aumenta la dispersione e l’abbandono scolastico. È tutto un catalogo dell’assenza.
Queste voci non si alzano solo contro le carenze del sistema: segnalano la necessità di recuperare spazi abbandonati da mettere a servizio della situazioni di fragilità (anche consultori); chiedono il diritto all’autodeterminazione dei corpi e dell’identità, a un’assistenza psicologica; tirano le fila tra la tematica transfemminista e la questione ambientale.
A. da Catania chiede perché invece che fare la DAD nessuno ha studiato soluzioni per fare in maniera generalizzata lezioni all’aperto, ricorda che a ottobre 2021 un’alluvione ha devastato le scuole, che già prima non erano spazi sicuri, chi ha amministrato devastando i territori, lasciando avanzare il degrado, è diretto responsabile delle condizioni di vita fatiscenti della scuola e di chi la vive.
E poi emerge la voglia di urlare tutta la propria rabbia contro l’alternanza scuola-lavoro, specie dopo le cariche della polizia. F. da Torino ricorda: gli studenti della città si sono mobilitati in massa dopo la morte di Lorenzo e sono stati caricati cinque volte dalla polizia, in una sorta di guerriglia urbana unidirezionale da parte delle forze dell’ordine, con il risultato di quasi quaranta feriti, molti dei quali hanno addirittura preferito non andare in ospedale per non rischiare l’identificazione. Denuncia una gestione a dir poco discutibile da parte del questore, con convocazioni orali, vero e proprio tentativo di intimidazione, ma anche da parte delle altre istituzioni scolastiche. Il presunto attacco a opera di un furgone che trasportava la cassa durante la manifestazione era in realtà una manovra per parcheggiarlo.
Il tentativo di far passare le cariche della polizia come reazioni ad attacchi di un gruppo di facinorosi e violenti – persino nell’audizione della ministra Lamorgese – appare del tutto inventato: i manifestanti non sono stati violenti, hanno solo urlato la loro rabbia, per chiedere che non ci siano altre vittime come Lorenzo.
A Torino le proteste si sono allargate: gli studenti in piazza sono passati da 200 a 3.000, si sono uniti diversi gruppi per una piattaforma politica comune, che coinvolge la consulta degli studenti ma anche la val di Susa (leggi anche Finalmente noi).
Il 18 febbraio ci sarà una grande manifestazione per rilanciare le rivendicazioni.
Anche a Roma, a Napoli, appaiono gli stessi segnali di un allargamento e organizzazione della protesta: l’autunno intenso appena passato vede la nascita di nuovi collettivi, il convergere di quelli esistenti sotto nuove sigle. Il movimento degli studenti cresce e si pone la necessità di organizzare e unire le forze: la lotta deve essere per ogni persona sfruttata, per l’ambiente, per l’edilizia scolastica, per il trasporto, per la programmazione.
Si sentono ignorati e stanchi, chiedono di essere coinvolti nelle scelte che li riguardano, nella gestione dei fondi. Invocano momenti di autoformazione e collettività, di parlare di Palestina e Afghanistan, si sono uniti nelle lotte di realtà lavorative come GKN a Firenze e Whirpool a Napoli, alle esperienze di mutualismo dal basso. Rifiutano la scuola meritocratica e individualista, criticano il governo dei “migliori-padroni”, rifiutano l’alternanza scuola-lavoro. La valutazione come un numero appiccicato ad anni di non-scuola. Sono stati finora tante gocce che hanno formato un mare, vogliono diventare tempesta. E chiedono le dimissioni del ministro Bianchi.
Le voci si susseguono da Milano, Reggio Emilia, Palermo, Caserta.
Colpisce come molti si sollevino a parlare del bisogno di radicalizzare il presente: non mirano al futuro, non si può rinviare a progetti di là da venire, vogliono coinvolgere i propri coetanei nel qui e adesso, rompere questo velo di quiescenza che fa accettare qualsiasi cosa arrivi, dalle botte in piazza al lampadario in testa caduto dal tetto di una scuola fatiscente, all’abbandono di un compagno che va a ingrossare le fila di altri “numeri”.
In questo contesto, l’inserimento dell’esame scritto come fosse stata raggiunta la normalità è vissuto come una macabra mascherata.
Appuntamento per il giorno successivo ad Acrobax per decidere le prossime azioni: la sera si conclude con un presidio al Miur e un mini corteo fino a piazza San Cosimato a Trastevere, per ribadire le ragioni della protesta e lanciare i prossimi appuntamenti.
E noi li aspettiamo in piazza, per mettere la scuola e le tante rivendicazioni comuni al centro dell’agenda pubblica e politica.
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VOGLIAMO IMPARARE A SUONARE IL CLAVICEMBALO, SE LO DESIDERIAMO!
di Ennio Avanzi
VOGLIAMO IMPARARE A SUONARE IL CLAVICEMBALO! SE LO DESIDERIAMO!
Nell’autunno caldo del 1969, prese forza l’idea di buttare sul tavolo della trattativa del rinnovo del contratto dei Metalmeccanici il congedo retribuito per “studiare”. La risposta padronale al tavolo delle trattative fu arrogante: “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?”. La FLM seppe rispondere a tono: “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo“.
Anni di lotta. Il 9 FEBBRAIO 1973 250.000 LAVORATICI E LAVORATORI METALMECCANICI MANIFESTANO A ROMA E VINCONO: NEL CONTRATTO CI SARANNO 150 ORE RETRIBUITE PER STUDIARE tutte le operaie e a tutti gli operai sapevano cosa voleva dire studiare il clavicembalo: le lavoratrici ed i lavoratori avrebbero avuto il diritto soggettivo ad imparare, non solo i saperi tecnici e professionali di un’azienda, ma anche saperi, culture e competenze personali, come per esempio una lingua straniera o uno strumento musicale. A tutti e a tutte era chiaro che il diritto allo studio poteva scardinare i rapporti di forza sociali: diritto allo studio passo fondamentale per il diritto al potere. Seguirono anni di seminari sulla condizione del lavoro e sulle questioni sociali all’università con gli operai e le operaie che potevano parteciparvi usufruendo delle “150 ore” 500000 donne e uomini che tornarono a scuola e ottennero la licenza media.
Poi la società si trasformò e le “150 ore” divennero educazione degli adulti: prima come CTP, centri territoriali permanenti, poi CPIA , centri provinciali per l’istruzione degli adulti. Il mondo del lavoro è molto più debole rispetto agli anni 70 ma il DIRITTO ALLO STUDIO rimane un obiettivo strategico per combattere sfruttamento, marginalizzazione, precarietà e razzismo. Nei CPIA, oggi, trovano strumenti e possibilità di apprendimento donne e uomini, stranieri ed italiani. Dovrebbero essere luoghi di “educazione permanente” così importante in un mondo che muta in continuazione e schiaccia chi non sta al passo. Purtroppo non lo sono perché le risorse dedicate non sono sufficienti. Inoltre i CPIA, scuole di Stato, con insegnanti statali, sono un luogo dove si fa cultura, perché ha persone che arrivano da ogni parte del mondo, persone che hanno imparato nei deserti e nei mari il mestiere di vivere, altre che hanno studiato e hanno dovuto fuggire dalla fame o dalle prigioni. Persone che ogni giorno studiano, si confrontano, discutono I CPIA è il luogo dove tutti possono imparare insegnanti compresi.
Ma una scuola dei “deboli”, dei senza diritti, degli invisibili facilmente viene messa al margine ed ignorata. C’è, ma molte volte non funziona bene o come dovrebbe funzionare. La burocrazia sempre più intrusiva l’impoverimento pedagogico fanno si che troppo spesso i Cpia non siano momento di liberazione, grazie allo studio, delle donne e degli uomini, non siano momento di presa di coscienza, come spinta per diventare protagonisti nella società. Ora, come negli anni 70, il diritto allo studio deve essere conquistato con l’impegno e le lotte, giorno per giorno. non solo da chi lavora nei cpia ma da tutti i soggetti sociali, politici, sindacali che vogliono combattere le disuguaglianze. Che fare? Intanto far conoscere cosa sono i CPIA e i problemi che li fanno funzionare male. Poi ragionare su come estendere e migliorare il diritto allo studio nella attuale realtà sociale.
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Qui scuola: c’è qualcuno là fuori? Mi sentite?
INTERVISTA DI SILVIA ROSA A ENNIO AVANZI EX DOCENTE DEL CPIA 2 DI TORINO
Sebbene la scuola occupi ormai da tempo un posto centrale nel dibattito politico e a più riprese sia anche fulcro delle attenzioni dell’opinione pubblica, resta completamente in ombra, relegato ai discorsi dei pochi addetti ai lavori, tutto il comparto dell’educazione degli adulti: può spiegare brevemente che cosa sono i CPIA? Qual è il loro bacino d’utenza? Quali finalità hanno? Perché secondo Lei se ne sente parlare così di rado, con scarso interesse, nonostante l’importanza cruciale che rivestono in una società complessa come la nostra?
I Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti sono la parte della scuola di Stato che si occupa dell’istruzione degli adulti a più livelli: alfabetizzazione, insegnamento della lingua italiana, scuola secondaria di primo grado. Sono l’evoluzione delle “150 ore” e dei CTP. Sono stati istituiti nel 2014-15 con un impianto che avrebbe dovuto essere verificato dopo tre anni ma che, nonostante i limiti evidenziati, è tuttora immutato. Possono iscriversi ai CPIA tutti gli adulti, italiani e stranieri, che vogliono conseguire il diploma conclusivo del primo ciclo di studi (ex licenza media), imparare l’italiano, imparare a leggere e a scrivere. Possono iscriversi anche minorenni con più di 16 anni d’età. Nell’ultimo decennio le donne e gli uomini stranieri che fruiscono del servizio sono diventati la maggioranza, nelle grandi città superano il 90% dei frequentanti. Alta è la percentuale di richiedenti asilo, molti dei quali con bassa o nulla scolarità nei paesi d’origine, e di donne giunte in Italia per ricongiungimenti famigliari.
Le disuguaglianze sociali, già ben presenti nella società italiana, si sono accentuate. Le donne e gli uomini che frequentano i CPIA sono in gran parte soggetti molto fragili e con nessun peso politico. C’è pochissima attenzione alle problematiche dell’educazione degli adulti in tempi normali e quindi non c’è da stupirsi che in tempi di covid-19 l’attenzione si azzeri e il servizio evapori nell’assordante silenzio di tutti. Una scelta politica miope in quanto non solo l’insegnamento della lingua italiana ma soprattutto la formazione permanente, l’alfabetizzazione funzionale, l’alfabetizzazione digitale sono strategici motori di inserimento sociale e lavorativo in una società complessa e con una accelerazione nelle dinamiche di trasformazione del mercato del lavoro. Ancora più strategica nel contesto che dovremo affrontare quando saremo usciti dalla crisi sanitaria.
L’emergenza sanitaria per l’epidemia da Covid-19 ha determinato la chiusura delle scuole a più riprese (la scorsa primavera e di nuovo questo autunno) e l’avvio della didattica a distanza (Dad), di cui sentiamo parlare ormai da mesi con annessi giudizi i più contrastanti: da chi demonizza senza se e senza ogni forma di didattica che non sia in presenza, a chi ha posizioni più moderate e possibiliste in merito, rilevando delle potenzialità e dei margini di miglioramento che potrebbero trasformare la Dad in una modalità stabile di fare scuola, in un futuro prossimo. Che cosa è successo e che cosa sta succedendo nei CPIA, in questo delicato frangente? Come e con quali mezzi, risorse e inconvenienti si continua a fare didattica? Qual è la risposta delle e degli studenti dei CPIA?
L’emergenza sanitaria ha trovato a marzo assolutamente impreparata la maggioranza dei CPIA e, cosa più grave, nei mesi successivi in molte realtà non si sono trovate soluzioni per garantire un servizio decente che permettesse di mantenere l’offerta di istruzione e formazione ai livelli, qualitativi e quantitativi, degli anni precedenti. Credo che il dato sia nazionale, ma posso parlare con certezza della realtà di Torino e provincia, che è quella che conosco molto bene per aver lavorato nell’educazione degli adulti per quarant’anni.
Il primo dato, che fa capire quale sia la scelta dell’Amministrazione, riguarda gli organici. In una città come Torino, con una capacità di offerta di istruzione agli adulti già insufficiente, sono stati ridotti gli organici proprio ai CPIA che operano nella parte nord della città, quella con più stranieri residenti e con più disagio sociale. Ciò ha determinato un calo di iscrizioni molto elevato, in alcuni casi, complice anche la scarsa sensibilità all’inclusione sociale, vi è stata una riduzione del 70-80%. Non c’è stato un fenomeno di “fuga”, determinata dalla paura del contagio da parte della potenziale utenza, anzi il contrario: si è trattato di una riduzione del servizio non giustificabile dovuta solo alle scelte dell’Amministrazione e all’eccessiva “prudenza” di alcune/i dirigenti scolastici, che invece di governare la situazione per creare le condizioni di lavorare e studiare in sicurezza, hanno semplicemente preferito decurtare il servizio per ridurre il pericolo di avere contagi ma, soprattutto, di avere problemi.
Non ha senso demonizzare la didattica a distanza e per alcune categorie di frequentanti può funzionare e dovrebbe essere ampliata anche in periodi non emergenziali, ma per una parte rilevante delle studentesse e degli studenti dei CPIA la Dad non può funzionare, ha dei risultati didattici minimi.
La Dad non può funzionare quando i fruitori non hanno strumenti tecnici, ambientali, culturali per poter seguire le lezioni. Molte studentesse straniere, nei quartieri socialmente difficili, vivono in appartamenti molto piccoli con parecchi figli che dovrebbero seguire le lezioni in Dad. Senza PC. Con scarsissima connettività.
Anche la maggioranza delle/dei richiedenti asilo non ha situazioni ambientali e personali per poter seguire le lezioni a distanza. Molti di bassa scolarità o di nulla scolarità hanno difficoltà ad utilizzare gli strumenti necessari. Quasi tutte/i hanno un reddito basso o inesistente che rende problematiche connessioni che durano ore. Per alcuni di questi problemi sarebbe stato possibile trovare qualche rimedio, come per esempio iniziare lezioni di alfabetizzazione digitale nei mesi di settembre e ottobre oppure fornire “saponette” e schede per permettere connettività e non far gravare i costi dello studio a chi non ha reddito, sensibilità democratica e sociale che qualche dirigente ha avuto, mentre altri assolutamente no.
La Dad può funzionare con quella parte di studenti che ha potuto studiare nel proprio paese, che è in possesso di device adeguati. Anzi la Dad e la Fad, formazione a distanza, dovrebbero, anche in tempi non emergenziali, diventare strumento per programmare e proporre, in percentuale molto maggiore di quella individuata nel DPR che ha istituito i CPIA, a studentesse e studenti che ne possono fruire con profitto. Sarebbe una forma di rispetto per il tempo delle donne e degli uomini che frequentano. La Fad, insieme al riconoscimento delle competenze già possedute dalle studentesse e dagli studenti, sarebbe non solo uno strumento ma anche una forma di rispetto della persona e della cultura di chi frequenta i CPIA. Costringere donne e uomini a venire a scuola per seguire lezioni i cui contenuti sono molto inferiori a quelli che hanno studiato nei loro paesi è poco rispettoso, propone una visione dell’educazione degli adulti mortificante, astrusamente burocratica. Le norme prevedono che i crediti non possano superare il 50% del monte ore e così la professoressa di fisica universitaria siriana, dovrebbe frequentare lezioni matematica, tecnologia e scienze… Mi sembra senza senso, anche economicamente. Inutile dire che le professoresse universitarie siriane o i professori universitari congolesi non hanno avuto nessuna difficoltà a seguire la Dad.
Le sue parole sembrerebbero mettere in evidenza un atteggiamento poco rispetto nei confronti di persone e culture diverse. È così? Potrebbe fare degli esempi?
Sì, penso che i CPIA, che hanno introdotto nell’istruzione degli adulti forme di burocrazia assolutamente dannose, abbiano dimenticato molto spesso il compito costituzionale di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle persone un pieno inserimento sociale. Per avere successo, per prima cosa, proprio perché si interagisce con persone adulte, ogni obiettivo deve essere in relazione allo sviluppo di capacità critiche, di capacità partecipative. Insomma bisognerebbe bandire ogni atteggiamento paternalistico per considerare le studentesse e gli studenti per quello che sono: persone con dei diritti e dei doveri, in possesso di competenze “altre”, diverse ma non inferiori.
Farò un esempio per chiarire. Uno studente degli anni passati pochi giorni fa mi ha telefonato per confidarmi un profondo senso di delusione. Andato a ritirare il diploma ha notato che sul distributore di bevande calde, nell’atrio, luogo pubblico, c’era in ben evidenza la scritta “GUASTO”, poi ha visto quattro insegnanti avvicinarsi e prendere tranquillamente le bevande. Ha capito che quel “GUASTO” valeva solo per le studentesse e gli studenti. Ha ritenuto offensivo questo fatto, lo ha definito “razzista” sviato dal fatto che la maggioranza degli insegnanti sono “bianchi” mentre la maggioranza di chi studia è formata da “neri” o islamici. In realtà sono sicuro non ci sia nelle intenzioni di quella scuola una connotazione razzista o forme di apartheid. C’è però, questo sì, una mancanza di rispetto delle persone, una mancanza di attenzione a una correttezza educativa, una “caduta” dal punto di vista professionale. In primo luogo da parte della dirigenza, che dovrebbe garantire un ambiente dignitoso per tutte e tutti, ma anche da parte delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola. E non giustifico neanche le studentesse e gli studenti perché certe cose non si devono accettare. Pur consapevole che l’episodio è minimo e che anche la parola “schiavo” è assolutamente impropria voglio citare Thomas Sankara: “Lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta”. Gli studenti non sono “schiavi” e gli insegnanti non sono “padroni”, mi piace pensare che in una scuola degli adulti, studenti e insegnanti insieme, in un proficuo scambio di esperienze e opinioni, si impegnino per acquisire un livello superiore di coscienza dei propri diritti e di propri doveri.
Più onesta intellettualmente, sebbene non opportuna, sarebbe stata la scritta “servizio riservato al personale della scuola”. Sicuramente quanto raccontato non sarebbe potuto accadere nelle “150 ore” o nei CTP. Ma che le studentesse e gli studenti siano considerati poca cosa dal punto di vista della partecipazione democratica credo sia un dato purtroppo oggettivo. La loro opinione conta poco e, rispetto a dei loro diritti, sembra si possano disattendere anche le leggi.
Quindi non ci sarebbe solo un aspetto “culturale” a compromettere il diritto allo studio degli studenti ma addirittura delle inadempienze: può essere più preciso?
Un primo dato è che la maggioranza dei CPIA, a Torino tutti, dopo sei / sette anni dall’istituzione, non ha ancora eletto il Consiglio d’Istituto che, in base alle leggi (i famosi “decreti delegati”) è l’organismo democratico e partecipativo delle scuole. Il Consiglio d’Istituto è elettivo e prevede la partecipazione dei rappresentanti di tutta la comunità scolastica. Cosa ancora più grave è che, nell’ipotesi che tale organismo non venga considerato applicabile nei CPIA, il Ministero non abbia provveduto a legiferare in modo da dare anche ai CPIA uno strumento di partecipazione e di democrazia. Strumento di partecipazione e democrazia che, sia chiaro, manca anche a chi lavora nei CPIA.
Che il punto di vista delle studentesse e degli studenti non abbia nessun peso e nessun luogo per esprimersi porta a vere e proprio inadempienze di Leggi e Ordinanze. Inadempienze che in molti casi danneggiano in modo grave le vite di molte donne e molti uomini.
La inadempienza che denuncio riguarda strettamente il periodo di emergenza Covid-19. L’Ordinanza ministeriale del 16 maggio 2020 che disciplinava il rilascio del diploma è molto chiara nell’art. 11, comma 5: lo scrutinio finale delle classi di primo livello (media) portava al rilascio del diploma per chi possedeva le competenze richieste e la riformulazione del patto formativo individualizzato agli studenti ritenuti non ancora in possesso delle competenze necessarie. Un nuovo Patto formativo finalizzato a sostenere una sessione d’esame prima di marzo 2021. Una norma sensata che tiene conto delle difficoltà di apprendere con la Dad ma anche della necessità di non stravolgere completamente gli obiettivi personali degli studenti. Un “ordine” ministeriale così chiaro, se non annullato con atto ministeriale successivo, prevede solo due casi: tutte le studentesse e tutti gli studenti scrutinati a giugno devono avere il diploma oppure tutti i plessi di tutti i CPIA devono organizzare esami di Stato a gennaio o febbraio, anche solo per pochi studenti, perché è un loro diritto e perché così dice l’Ordinanza. Ma questo, a Torino e provincia, non succede tranne che in una realtà virtuosa. Molti dirigenti scolastici che sono pagati per far rispettare leggi, norme, circolari, ordinanze sembrano indifferenti. Le/gli insegnanti, in molti casi, non hanno neanche spiegato agli studenti questa possibilità. A proposito della burocratizzazione dei CPIA: viene introdotta l’Educazione Civica, si costruiscono contenitori e sillabi, ma non si pensa neanche lontanamente di informare gli studenti delle opportunità che li riguardano, come il diritto di sostenere l’esame di Stato prima di marzo o, almeno, di avere un regolare scrutinio di ammissione.
Questa inadempienza costa care a molte persone: si pensi ad esempio alle/ai richiedenti asilo che escono dai loro progetti di accoglienza a marzo. Si pensi ai molti studenti che, per vivere, a giugno si trasferiscono in altre regioni per la raccolta dei pomodori e della frutta.
Quali proposte si potrebbero avanzare per conciliare il diritto allo studio delle e degli studenti dei CPIA con l’esigenza di affrontare l’emergenza sanitaria in corso? Esiste in tal senso un paniere di idee e proposte condivise dalla rete di CPIA sparsi sul territorio nazionale?
Prima di tutto bisognerebbe non tagliare gli organici, Ciò significa ripristinare subito le cattedre esistenti nel 2019-20. Poi ci vuole un piano più aggressivo dei Comuni, del MIUR territoriale, della Regione per concordare azioni che permettano di aumentare i punti di erogazione.
Più sedi e locali significa decentrare i flussi e minimizzare gli spostamenti con mezzi pubblici. Nelle grandi città devono essere individuate scuole dismesse o altri edifici pubblici o provati per aumentare i punti di erogazione e mantenere un servizio per tutte e tutti quelli che ne hanno necessità. A Torino c’erano realtà che accoglievano ogni giorno 900-1000 persone; un flusso che non sarà più sostenibile anche a emergenza terminata. Ma le persone ci sono, non sono sparite perché c’è l’emergenza, e hanno bisogno e diritto a un servizio. Bisogna raddoppiare le sedi in casi di flussi giornalieri nell’ordine delle centinaia di persone. Leggendo questi numeri non si allarmi nessuno/a, ora in quelle realtà i flussi sono drasticamente ridotti, ma questo è un problema che il MIUR e molti dirigenti scolastici sembrano ignorare: non si dà un servizio!
Nella provincia devono essere individuati punti di erogazione sparsi nel territorio per minimizzare gli spostamenti e per ridurre il numero di persone frequentanti nelle varie sedi. Dove questa politica è già stata praticata ci sono ottimi risultati: si assiste, in sicurezza, alla tenuta del servizio con iscrizioni e percorsi che portano al conseguimento di un attestato o un diploma addirittura superiori all’anno precedente.
Occorre un migliore utilizzo dei fondi ministeriali per aumentare significativamente il numero di studenti e di studentesse che possono seguire la Dad. Chi ha le competenze digitali per fare profitto di lezioni a distanza deve essere messo in condizione di seguirle; ciò significa device in prestito d’uso e sostegno economico per connettersi.
Infine deve essere rivisto in modo critico il “calendario materiale” dei CPIA: aumentare i giorni di lezione e organizzare l’anno scolastico in modo diverso per poter prevedere fin dal primo settembre attività di alfabetizzazione digitale. Tempi lunghissimi di “accoglienza”, come purtroppo è avvenuto in molti CPIA anche quest’anno, risultano essere dannosi e non giustificati dal fatto che molti studenti sono gli stessi dell’anno precedente. L’utilizzo delle risorse è comunque fondamentale e ci vorrebbe un monitoraggio più attento del Miur per capire come decine di migliaia di euro, finalizzate a fornire agli studenti la possibilità di seguire in Dad, non abbiano finora dato risultati visibili.
Il Miur nazionale sembra ignorare i CPIA. A Torino e provincia anche a livello territoriale il coordinamento risulta essere assolutamente insufficiente per garantire un minimo di omogeneità tra i vari CPIA. Ognuno sembra agire in modo completamente autonomo, un cattivo uso dell’autonomia scolastica. Alcuni applicano l’ordinanza del 16 maggio relativa agli esami di gennaio, altri la ignorano. Alcuni funzionano, quasi esclusivamente, con la Dad, altri hanno lasciato ai consigli di classe dei corsi di alfabetizzazione la decisione se fare o meno lezioni in presenza, altri ancora forniscono lezioni in presenza alla bassa scolarità e a chi ha difficoltà nel primo livello, altri infine stanno facendo in presenza lezioni anche per gli studenti e le studentesse che sosterranno gli esami a gennaio. Una realtà che offende la logica ma soprattutto sconcerta chi vuole frequentare i CPIA. La diversa offerta ha creato, questa sì, migrazioni da un territorio all’altro. Le persone vogliono studiare e preferiscono farlo in presenza. Sono disponibili a spostarsi. Quindi la mancanza di coordinamento ha determinato un ingiustificato aumento di uso dei mezzi pubblici.
Che conseguenze a breve e lungo termine immagina possano derivare da una mancata risposta alle richieste e alle necessità dell’utenza dei CPIA?
Le conseguenze negative che subiscono gli studenti delle altre scuole ci sono tutte. Nell’educazione degli adulti ce ne sono ancora di più perché le donne e gli uomini che frequentano i CPIA in molti casi sono socialmente svantaggiati e la perdita della possibilità di studiare in modo proficuo non fa che aumentare le cause oggettive del loro svantaggio incrementano gli elementi di disuguaglianza.
Si tenga presente che mentre nella scuola dell’obbligo e nelle superiori in ogni caso, bene o male, gli studenti tutti stanno proseguendo il percorso di studi, nell’educazione degli adulti non è così. Chi vuole studiare spesso ha trovato porte sbarrate.
La riduzione delle iscrizioni e la contrazione dell’organico che c’è stata, farà da base a una riduzione del servizio nel futuro.
I danni sociali mi sembrano evidenti: senza politiche di educazione permanente, senza investimenti strategici, senza una lotta radicale contro l’analfabetismo funzionale e digitale una parte sempre più grande della società sarà tagliata fuori dai processi di modernizzazione del lavoro e dalla possibilità di partecipare attivamente e consapevolmente alla vita sociale del paese.
Ennio Avanzi ha insegnato a Torino per 40 anni nell’educazione degli adulti, passando dalle “150 ore” ai CPIA. In pensione dal primo settembre 2020, è stato Consigliere comunale di Torino, e RSU nel proprio istituto.