STRAGE DEL 18 DICEMBRE 1922: QUESTO E’ IL FASCISMO, DI IERI E DI OGGI

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Alessio Lega e Coro Achtung Banditen per ricordare i 100 anni dall’assalto fascista della Camera del Lavoro.
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Istituto Gramsci Torino su Instagram: ““Torino, 18-19-20 dicembre 1922: dopo uno scontro in Barriera di Nizza tra un gruppo di fascisti e un comunista, gli squadristi uccidono…”

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Torino 1922: una strage fascista e la regola dell’impunità

ALL’ARMI SON FASCISTI

di Maria Chiara Acciarini sito Volere la luna

Il 18 novembre 1971 muore, nella clinica Fornaca di Torino, a 78 anni appena compiuti, Piero Brandimarte, capo delle squadre fasciste, come annuncia il giorno dopo La Stampa, in coincidenza dello svolgimento dei funerali. Alla cerimonia partecipano anche alcuni nostalgici fascisti della Milizia e compaiono labari pieni di aquile fasciste e di medaglie. Quello, però, che ancora sconcerta di più, a tanti anni di distanza, sono gli onori militari resi alla salma da un gruppo di bersaglieri del 22° Reggimento fanteria della Divisione Cremona, cioè da soldati della Repubblica italiana nata dalla Resistenza. Il destino vuole che la clinica Fornaca, una delle più raffinate di Torino, sorga nel cuore della Crocetta, in corso Galileo Ferraris, all’angolo con corso Vittorio Emanuele II. Al “padre della patria” è dedicato il monumento che si erge al centro dell’incrocio e ai suoi piedi, il 18 dicembre 1922, le squadracce fasciste, capitanate da Brandimarte, abbandonano, rantolante, con il volto sfigurato, l’anarchico Pietro Ferrero, segretario del sindacato metallurgici, fatto oggetto di una bestiale ferocia. È stato trascinato per i piedi, torturato, gli sono stati sparati due proiettili a pochi centimetri dal viso. Soccorso da un passante, giunge già morto all’ospedale San Giovanni. È possibile identificarlo solo grazie alla tessera della Croce Verde che ha in tasca.

Pietro Ferrero è una delle vittime della strage di Torino, di cui la città celebra in questi giorni il centenario con una nutrita serie di iniziative. Fra il 18 e il 19 dicembre, prendendo a pretesto la morte di due esponenti fascisti, Dresda e Bazzani nel corso di un conflitto a fuoco – i cui motivi sembrano essere stati più personali che politici – con il comunista Francesco Prato, si abbatte sulla città un’azione di inaudita violenza, annunciata dall’affissione sui muri della città di manifesti, firmati appunto da Brandimarte, in cui si invitano i fascisti alla mobilitazione e alla vendetta. La rappresaglia, compiuta nella città operaia per eccellenza, ha, ovviamente, un obiettivo politico ben preciso e condiviso dagli alti vertici del fascismo: dare un inequivocabile messaggio ai comunisti, ai socialisti, agli anarchici sulle terribili conseguenze a cui vanno incontro se persistono nella loro tenace opposizione al regime. Vengono ammazzati undici antifascisti, molti altri sono feriti e altri si salvano solo perché riescono a salire sul primo treno che trovano in partenza da Porta Susa. Fra questi ultimi c’è anche Filippo Acciarini, impiegato delle ferrovie e giornalista, deceduto nel campo di concentramento di Mauthausen il 2 marzo 1945. Nei giorni successivi sulle pagine dell’Avanti! – che, insieme all’Unità , s’impegna a conservare la memoria della strage – Acciarini mette in risalto il clima di quei giorni e il silenzio che circonda le esequie delle vittime: «I due morti di parte fascista furono condotti all’estrema dimora fra onoranze che assunsero l’aspetto di una apoteosi. Gli undici umili morti saranno trasportati al cimitero furtivamente, senza seguito di amici, senza discorsi, senza fiori. Così si usava, quando vigeva la pena capitale, per i delinquenti giustiziati dalla mano del boia. Così si usa oggi per innocenti, uccisi a sangue freddo in espiazione di una colpa commessa da altri». Non solo il silenzio, ma anche una tempestiva amnistia a pochi giorni dalla strage, prevista in un decreto del 22 dicembre, permettono a mandanti ed esecutori di farla franca.

È, quindi, ben comprensibile che dopo la caduta del fascismo si alzi forte la voce di coloro che chiedono giustizia e una severa punizione per Brandimarte, il quale, oltretutto, ha anche aderito con entusiasmo alla Repubblica Sociale Italiana ed è stato arrestato il 29 maggio 1945 dal partigiano piemontese Leonardo Berardi. Nell’agosto del 1943 era già stato ristampato l’opuscolo di denuncia scritto dall’avvocato Francesco Répaci all’indomani della strage e, nel periodo successivo alla Liberazione, i socialisti, i comunisti e, in generale, gli antifascisti rievocano sui loro giornali il terribile fatto di sangue e invocano una sentenza esemplare, che, purtroppo, non ci sarà.

Il primo atto che comincia a metterla in discussione è lo spostamento del processo a Firenze per “legittima suspicione”: i giudici, cioè, ritengono che Torino non sia la sede adatta per l’assenza del clima di serenità necessario e per il rischio di disordini. A nulla valgono gli appelli – a Ferruccio Parri, presidente del Consiglio, e a Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia – e le numerose manifestazioni di piazza contro tale decisione: il processo si svolge a Firenze. La sentenza di primo grado viene pronunciata nel 1950 e Brandimarte è riconosciuto colpevole di concorso in tutti gli omicidi. La pena, di per sé severa, di 26 anni e 3 mesi gli viene però condonata – in base alle leggi vigenti – di due terzi più un anno. L’imputato e gli avvocati difensori aspirano – e non sbagliano – a qualche cosa di ancora più favorevole e presentano appello. Così il 28 aprile 1952 la Corte d’assise d’appello giunge ad assolvere Brandimarte per “insufficienza di prove”.

Ritornato libero, l’ex-console della Milizia fascista ha ancora davanti a sé un congruo numero di anni per godersi la pensione da generale e concludere agiatamente la propria vita nel modo e nel luogo di cui si è detto. Che nella sua azione delittuosa non sia stato solo, che abbia potuto contare sull’appoggio di alti vertici romani e sulla benevola indifferenza di alcuni apparati dello Stato, non toglie nulla al valore simbolico che questa quieta fine e gli onori militari tributati alla salma hanno avuto nella coscienza collettiva degli italiani. Come osserva Bruno Maida nel libro scritto con Nicola Adduci e Barbara Berruti, La nascita del Fascismo a Torino (Edizioni del Capricorno, 2020), «memoria e giustizia dovrebbero sempre procedere parallele o per lo meno non prendere strade diverse. Come sappiamo nel caso del fascismo di rado è stato così e il secondo dopoguerra è stato segnato casomai dall’assenza di giustizia e da un’amnistia che ha troppo spesso avuto il carattere dell’amnesia».

Di tante reticenze, omissioni, amnesie paghiamo ancora le conseguenze.

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18 dicembre 1922. Brandimarte: la strage fascista di Torino

Bruno Maida dal sito Doppiozero

18 Dicembre 2022

Piero Brandimarte ha 29 anni nel 1922, ha partecipato alla prima guerra mondiale come tenente dei bersaglieri, nel dopoguerra ha subito aderito al fascismo e nel 1919 ha assunto il comando della “Disperata”, la prima squadra d’azione torinese. È decorato di medaglia d’argento ed è un campione di lotta. È profondamente convinto che la violenza sia lo strumento principale che il fascismo ha per affermarsi ed è pronto a usarla senza alcuna remora. Ed è lui che assume il comando a Torino, alla vigilia della marcia su Roma, delle squadre d’azione. Squadre che hanno il compito di dirigere le operazioni quando verrà l’ordine dell’occupazione da parte del comitato segreto del Fascio. In realtà, a Torino la marcia su Roma si limita all’occupazione temporanea e simbolica di alcune zone e la sera del 28 ottobre del 1922 la città appare tranquilla. Gruppi di fascisti si acquartierano nel parco del Valentino e il giorno dopo sfilano per la città. Non mancano gli attacchi ai nemici politici, come alla sede dell’Ordine Nuovo di Gramsci e alla sua tipografia, oppure ad alcuni centri di distribuzione della Alleanza cooperativa. I fascisti distruggono la Casa del Popolo del quartiere operaio di Barriera di Milano e nella notte del 29 ottobre viene incendiata e devastata la Camera del Lavoro. 

A Torino il fascismo è debole e poco radicato sul territorio. Ben diverso peso hanno le organizzazioni socialiste e comuniste che godono di una diffusa solidarietà comunitaria che caratterizza i quartieri operai e la loro popolazione. Ha scritto Gramsci nel 1918: “Torino è città moderna. L’attività capitalistica vi pulsa con fragore immane di officine ciclopiche che addensano in poche migliaia di metri quadri diecine e diecine di migliaia di proletari. Torino ha più di mezzo milione di abitanti: la umanità vi è divisa in due classi con caratteri di distinzione quali non esistono altrove in Italia”. Quell’umanità operaia e socialista costruisce la sua identità politica e la sua resistenza al fascismo nelle osterie, nelle Case del popolo, nei circoli operai. È un radicamento e una presenza che producono una profonda rabbia e fastidio in un fascismo che vorrebbe incarnare l’idea della rivoluzione e che invece viene respinto dalla città delle fabbriche.

Tuttavia, lo squadrismo torinese non disarma dopo la salita al potere di Mussolini e malgrado l’indicazione del partito di perseguire una strada più moderata. Uomini come Brandimarte, formatisi nella guerra e nella quotidiana violenza del dopoguerra – e che in quel contesto hanno acquisito prestigio e potere – rischiano di perder e tutto e si sentono progressivamente isolati. D’altra parte, il primo atto del Gran Consiglio, a metà di dicembre, è la fondazione della “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale” che sostituisce le squadre d’azione e ha il chiaro intento di legalizzare la parte più violenta ed eversiva del fascismo. Non si tratta di privarsi del proprio braccio armato ma di controllarlo dall’alto. Sul piano politico, il fascismo torinese assiste in quei mesi a un duro scontro tra le sue due principali personalità, Cesare Maria Devecchi e Mario Gioda, sostenitore del ricorso indiscriminato alla violenza il primo, rappresentante dei fascisti delle origini, il secondo. D’altra parte, per i più avvertiti il partito fascista, che ha rapidamente ingrossato le adesioni, è un luogo in cui ormai si gioca il destino politico di molti. 

È in questo quadro che nasce un complesso intreccio di insoddisfazione dei fascisti torinesi per le scelte apparentemente moderate del governo dopo la marcia su Roma, di conflitti per il potere nella città e nel partito, di profonda rabbia e delusione per un movimento operaio e socialista che, nonostante la violenza e le sconfitte, non appare piegato. La strage del XVIII dicembre 1922, a meno di due mesi dalla conquista fascista del potere, ne è la principale e drammatica conseguenza. Materialmente, ciò che accade tra il 18 e il 20 dicembre è la feroce rappresaglia per l’uccisione di due fascisti, Giuseppe Dresda, un ferroviere di 27 anni, e Lucio Bazzani, uno studente di 18. Dell’assassinio viene accusato il ventitreenne Francesco Prato, un comunista di 23 anni, anch’egli ferito, che riesce a nascondersi fino e in seguito ad allontanarsi da Torino e rifugiarsi in Unione Sovietica. Dalla marcia su Roma sono le prime vittime fasciste e l’impressione a Torino è grande. I fascisti si mobilitano mentre sui muri della città vengono affissi manifesti a firma di Brandimarte che invitano i fascisti a non piangere i morti, ma a vendicarli. 

È esattamente ciò che accade nei due giorni seguenti. I quartieri operai diventano zone di occupazione da parte dei fascisti, che li attraversano con i camion fornitigli nei mesi precedenti dagli industriali, si fermano davanti ai circoli operai, entrano, li devastano e li incendiano. La stessa sorte conoscono ancora una volta la Camera del Lavoro e la sede dell’Ordine Nuovo. Gli squadristi hanno una lista di tremila nemici dalla quale scelgono 24 nomi: sono coloro che devono pagare per la morte di Dresda e Bazzani. Entrano nelle loro abitazioni o li cercano sul posto di lavoro. Li uccidono davanti ai parenti oppure li portano via, procedendo a esecuzioni sommarie nelle vie o nei prati.

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I loro cadaveri sono lasciati visibili, come espressione della vendetta e come monito per tutti. Difficile dire se esiste un ordine centrale, se la strage viene programmata oppure si tratta di una brutalità che si autoalimenta e che è una sorta di tentativo di eliminare il nemico. Resta il fatto che sono undici le vittime della furia fascista: Carlo Berruti, Leone Mazzola, Giovanni Massaro, Matteo Chiolero, Andrea Chiomo, Pietro Ferrero, Erminio Andreoni, Matteo Tarizzo, Angelo Quintagliè, Cesare Pochettino, Evasio Becchio. Tutto avviene nell’immobilismo e nella connivenza delle autorità cittadine, prefetto e questore innanzitutto.

È una violenza talmente feroce che viene stigmatizzata da Mussolini che ordina un’inchiesta, risultata una farsa. Peraltro il 22 dicembre il re concede un’amnistia generale per i reati politici commessi “per un fine nazionale” e che sembra fatta su misura per i responsabili della strage. Le critiche del duce agli “eccessi” compiuti dallo squadrismo torinese investono prima di tutto Devecchi. Ma è un gioco delle parti: il fascio torinese viene sì sciolto ma la sua ricostituzione è affidata proprio a Devecchi. La stessa dinamica si ripete un mese dopo quando le squadre d’azione confluiscono nella Milizia volontaria nazionale e a capo di quella torinese viene nominato il console Brandimarte. 

Non meno significativa la memoria della strage. I fascisti torinesi costruiscono il proprio martirologio con il funerale di Bazzani e Dresda. Le loro salme vestite in camicia nera sono portate alla Casa del Fascio, messe una accanto all’altra e ricoperte di fiori mentre alla porta montano la guardia le sentinelle nazionaliste in camicia azzurra. Il funerale si svolge il 21 dicembre, trasformandosi in una vera e propria manifestazione fascista, bandiere italiane ai balconi, una banda che suona inni fascisti e in testa alla fanfara un tamburino di deamicisiana memoria. Al cimitero, il rito fascista vuole che si alzino le voci dell’“Attenti!” a cui segue l’appello dei morti, ritmato dall’urlo “Presente!”. Il ricordo di Bazzani in particolare diventa da questo momento uno degli aspetti ricorrenti della memoria fascista a Torino, con lapidi e monumenti, sezioni e giornate commemorative tutti gli anni.

Sull’altro versante, l’impressione tra i militanti socialisti e comunisti, e tra gli operai delle fabbriche, è enorme, almeno quanto la paura per quanto potrebbe ancora accadere. Il silenzio finisce per prevalere. I funerali di Pietro Ferrero si svolgono, due giorni dopo il suo assassinio, in una sostanziale clandestinità. Il corpo viene portato di nascosto al cimitero, non accompagnato da nessuno. Mentre la nebbia avvolge le tombe e le lapidi, sono presenti solo sedici persone, e sulla bara viene deposta un’unica corona di fiori. L’epigrafe apposta sulla lapide della tomba viene in seguito cancellata dai fascisti. Stesso destino ha la targa affissa, nella notte, sul muro della Camera del Lavoro per ricordare le vittime della strage. Già il giorno dopo i fascisti l’abbattono, e poi si recano davanti alla sezione comunista e al cimitero per asportare le due corone di fiori deposte per ricordare i morti. Da quel momento i compagni e gli amici dovranno avere grande cautela se vorranno portare fiori sulla tomba e nel luogo dove il suo corpo è stato rinvenuto.

Con il passare dei mesi, la memoria della strage fascista viene cancellata nelle strade, sui giornali e attraverso la giustizia. Gli arresti di comunisti diventano pratica di ogni giorno e con essi il saccheggio delle loro sedi e dei loro beni. A mantenere vivo il ricordo e a chiedere giustizia, ci prova il comunista Giovanni Roveda che incarica due avvocati di promuovere inutilmente un’azione giudiziaria contro i colpevoli della strage. Si impegnano “l’Unità” e l’“Avanti!” rievocando nell’anniversario ciò che è accaduto in quei giorni. Sempre nel 1924 esce per le edizioni “Avanti!” La strage di Torino di Francesco Repaci che raccoglie i suoi articoli sull’avvenimento. Ma quella memoria diventa ogni anno sempre più difficile a causa della clandestinità e alla sempre minore e difficile diffusione di ogni informazione antifascista. Spariscono anche i protagonisti o perché incarcerati dal regime, oppure perché costretti all’esilio o ancora perché se ne perdono le tracce. 

La toponomastica della città e le celebrazioni nel dopoguerra restituiscono memoria e dignità alle vittime della strage, ma non è così per la giustizia. Processato per la strage, Brandimarte, viene prima condannato nel 1950 e due anni dopo in Corte d’assise d’appello assolto per insufficienza di prove. L’ex console torna libero e a poco servono l’indignazione, le proteste e la manifestazione che vengono organizzate a Torino.

Per vent’anni, il maggiore responsabile diretto di quella strage (ma certo non l’unico) può vivere tranquillamente a casa sua. Del giorno del suo decesso, nel 1971 è rimasta una fotografia fuori dalla clinica dove è spirato: la bara appena collocata nel carro funebre, alcuni nostalgici fascisti della Milizia e degli Arditi che tengono labari pieni di aquile fasciste e medaglie. Sullo sfondo si vedono sei-sette dei ventisette bersaglieri del 22° Reggimento fanteria della Divisione “Cremona”. Salutano sull’attenti ignorando o dimenticando di essere soldati della Repubblica italiana.

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