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La tortura nelle carceri italiane

Non si tratta di mele marce

Patrizio Gonnella

La tortura nelle carceri italiane non è una prassi abituale ma non ha certo un carattere episodico e isolato come spesso, con l’aiuto della comunicazione mediatica, si tende a far credere. Ci sono accuse negli atti processuali che riguardano più di cento agenti di polizia penitenziaria. A breve sarà nominato un nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione. Sarebbe importante che fosse una personalità (non necessariamente un magistrato e non necessariamente uomo) che intervenga a gamba tesa rispetto alle responsabilità di sistema e alle corporazioni che hanno consentito quanto accaduto a Torino o a Santa Maria Capua Vetere

foto Pixabay

Antigone è stata ammessa parte civile nei procedimenti penali per i fatti di tortura avvenuti nelle carceri di Torino e Santa Maria Capua Vetere. Saranno parte del processo anche il garante nazionale e quelli territoriali. Il Ministero della Giustizia è chiamato a risponderne civilmente. Dal 2017, anno di approvazione della legge, possiamo citare la parola tortura, oltre che nei convegni, anche nei tribunali. E la stanno usando anche pubblici ministeri e giudici.

Noi non ci rallegriamo per la decisione di essere parte in procedimenti penali per tortura. Ben preferiremmo osservare un sistema penitenziario che non avesse involuzioni criminali. È però nostro dovere morale e giuridico lottare per la giustizia, laddove ci giungano segnalazioni di violenze brutali, tortura e maltrattamenti.

La lotta contro la tortura è anche lotta per la legalità costituzionale e internazionale. Di questo devono essere consapevoli tutti gli attori del sistema: poliziotti, sindacati, direttori, dirigenti a qualunque livello, ma anche politici di ogni schieramento.

Non diteci che la tortura è questione di mele marce. Estrapolo un paio delle tantissime accuse presenti negli atti processuali che riguardano ben oltre un centinaio di agenti di Polizia penitenziaria. Carcere di Torino, 2017: «Lo portavano in una stanza, lo costringevano a spogliarsi integralmente e, quindi, indossando i guanti, lo colpivano con violenti schiaffi e pugni al capo, all’addome e al volto». Carcere di Santa Maria Capua Vetere, 2020: «Lo aggredivano con schiaffi al volto, pugni e calci, gli sputavano addosso e lo insultavano, con espressioni del tipo sei un napoletano di merda».

Un carcere del nord, uno del sud, dinamiche interne differenti, in un caso sotto-cultura penitenziaria in un altro vendetta machista, assenza di voci contrarie e di mele sane, fatti avvenuti prima e durante la pandemia.

Con ciò nessuno vuole dire che questa è la prassi penitenziaria. Non lo è. Affermarlo significherebbe non tenere conto della complessità e della qualità di tantissimi operatori penitenziari che si affannano a garantire una pena legale e dignitosa. Ma è indubbio che la violenza, anche nelle sue forme più gravi, non è qualcosa di cui sorprendersi. Chi si sorprende fa il gioco dell’impunità.

Mentre partono due processi per tortura ricordiamo che il Presidente Mattarella ha ricordato il dramma delle carceri nel suo discorso di inizio mandato, che la ministra Cartabia insieme al premier Draghi sono andati a Santa Maria Capua Vetere per affermare il loro “nunca mas” alla tortura, che sono a disposizione della Ministra le significative proposte di innovazione del regolamento penitenziario della Commissione Ruotolo.

A breve sarà nominato un nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sarebbe importante che fosse una personalità (non necessariamente un magistrato e non necessariamente uomo) che intervenga a gamba tesa rispetto alle responsabilità di sistema e alle corporazioni che hanno consentito quanto accaduto a Torino o a Santa Maria Capua Vetere.

Ci vuole chi lavori a costruire una comune visione costituzionale della pena dove non ci sia più spazio per chi pratica la tortura, per chi la legittima e per chi la copre.

*Patrizio Gonnella è Presidente di Antigone

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ERGASTOLO: PENA DI MORTE NASCOSTA

Appello per un luogo intitolato a Margara, alfiere dei diritti in carcere.

di Grazia Zuffa

Uno spazio pubblico intitolato a Sandro Margara. Questa è la richiesta alle autorità fiorentine, contenuta in un appello lanciato alla fine di dicembre e che tutti possono sottoscrivere entro la fine di gennaio (https://bit.ly/appellomargara). Uno spazio qualificato, che evochi l’impronta di pensiero e di azione che Margara ha lasciato nel mondo del carcere e della giustizia. Il luogo giusto è all’interno dell’area recuperata dell’ex carcere fiorentino delle Murate: quel carcere teatro negli anni sessanta e settanta delle proteste dei detenuti, che vide più volte l’impegno del magistrato Sandro Margara all’ascolto delle loro ragioni e al dialogo, quale premessa per riformare il carcere nel rispetto dei diritti umani e dei principi costituzionali.

Già rievocare il ruolo di avanguardia di Margara in quella stagione permette di cogliere la complessità della sua figura: un magistrato di sorveglianza che ha saputo dare senso innovativo a questo istituto, un riformatore che, forte del suo sguardo sensibile alla quotidianità del carcere e alle persone ivi rinchiuse, ha preso parola sui principi cardine del diritto penale  e sui temi correlati più scottanti nel dibattito politico, con la sapienza del fine giurista: dalla questione della legittimità dell’ergastolo e delle norme di detenzione “speciale” come il 41bis, allo spazio da riservare alle alternative alla detenzione nel sistema complessivo delle pene.

Questi nodi sono ancora sul tappeto, anzi ci aspettano due scadenze decisive, l’una riguardo la sorte dell’ergastolo ostativo, l’altra delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) nel nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei”. Per le Rems, di cui si attende l’esito del pronunciamento della Corte Costituzionale, l’alternativa è fra il mantenimento del valore terapeutico di questi presidi, o il ritorno alla logica custodiale dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Perciò, richiamare oggi l’attenzione sulla figura di Sandro Margara è una felice coincidenza e insieme uno stimolo nella giusta direzione.

Anche sul rifiuto dell’Opg, Margara ha precorso i tempi. Scriveva su Fuoriluogo nel 2010: questa “ditta di pessima fama” (così definiva ironico l’Opg) si regge sui presupposti della “incurabilità e sostanziale perpetuità della malattia mentale” e sulla (conseguente) “condizione detentiva assolutamente priva di possibilità terapeutiche, con strutture e personali carcerari”, oltre che “sull’esistenza della pericolosità sociale” (quale corollario della malattia mentale). “Questo sistema è crollato sui primi due punti..e resta scalfitto anche il terzo”, concludeva.

Quanto all’ergastolo, dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’ergastolo ostativo, il Parlamento ha ancora alcuni mesi di tempo per modificare la normativa. Nel frattempo, il dibattito politico infuria fra chi vede in questo frangente l’occasione per ripensare la legittimità stessa dell’ergastolo, quella “pena di morte nascosta” evocata da Papa Francesco nell’enciclica “Tutti fratelli”; e chi, in nome dell’utilitarismo estremo, rivendica la pena perpetua senza possibilità di scampo per i grandi criminali, quale strumento chiave nella lotta alle mafie. Senonché, proprio sul trattamento dei “grandi scellerati” si misura la pregnanza del dettato costituzionale e la tenuta dell’aggancio alla persona, nel rispetto della sua dignità e umanità.  Questi capisaldi etici del viver civile, proprio in quanto tali valgono per tutti e tutte, su questo Margara è stato limpido e inflessibile. Per questo ha criticato senza sconti l’introduzione di norme sempre più stringenti di perpetuità della pena, appellandosi ai diritti del condannato a un “trattamento umano” e al reinserimento nella comunità: garanzie di civiltà, ambedue costituzionalmente sancite, ambedue in conflitto col “fine pena mai”

fonte: Il Manifesto blog Fuoriluogo

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